Wise Society : «Deleteri i contrasti scuola-famiglia: molti genitori sono da educare»
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«Deleteri i contrasti scuola-famiglia: molti genitori sono da educare»

di Fabio Di Todaro
25 Luglio 2014

La psicologa Anna Oliverio Ferraris, ordinario di psicologia dello sviluppo all’università Sapienza di Roma, rilancia la necessità di una nuova alleanza per il benessere dei bambini: «Senza connubio facili i problemi di apprendimento»

Image by © Isaac Lane Koval/CorbisQuando pensa all’educazione dei bambini, Anna Oliverio Ferraris rispolvera l’idea di una grande comunità: «Scuola e famiglia devono allearsi. Tocca all’istituzione fare il primo passo: se manca questo connubio, i bambini possono incorrere in problemi di apprendimento», afferma la docente, ordinario di psicologia dello sviluppo all’università Sapienza di Roma che ai genitori lancia però un appello. «Devono essere disposti a farsi educare dalla scuola: alcuni le si rivolgono per trovare conferma dei loro comportamenti, altri l’affrontano in maniera ostile perché sicuri del loro operato. Ma non si tratta di una sfida. In mezzo c’è il bambino che oggi riceve troppi messaggi da diverse fonti. Il gioco di squadra lo aiuta a individuare la retta via e scansare le insidie della vita».

Oliverio Ferraris, invoca spesso la trasparenza tra i banchi: come può la scuola mettersi a nudo di fronte alle famiglie?

«Aprendo le porte già il primo giorno per illustrare i progetti didattici. E agevolando l’ingresso dei genitori nelle classi, almeno una volta al mese. Il colloquio rimane un momento importante, in cui manca però il rapporto tra tutti le parti in causa. E il bambino, se ha dei problemi a scuola, lo vive con angoscia. Accogliendo le mamme e i papà in orario scolastico, invece, si instaurerebbe un rapporto di collaborazione e si agevolerebbe il confronto in gruppo».

Non tutti i genitori, però, sono uguali.

«Spesso anche loro, soprattutto se di profilo culturale non elevato, devono essere educati. Il mondo, d’altronde, sta cambiando. I ragazzi ricevono troppi stimoli sbagliati: penso, per esempio, ai numerosi spot che promuovono le scommesse, il cibo spazzatura e le bevande alcoliche. Occorre insegnare che i primi riferimenti restano comunque la famiglia e la scuola. Ma se i genitori non riescono a riconoscere queste insidie, è necessario che l’istituzione sia anche al loro servizio. Senza consapevolezza, d’altronde, è facile farsi suggestionare. Essere mamme e papà non è mai stato facile, ma oggi lo è ancora meno. Ai timori di chi guarda con sospetto alla complessità del mondo, si contrappone la voglia di indipendenza e autonomia dei ragazzi: la maggior parte degli scontri nascono da questo contrasto».

Image by © Graham Oliver/Juice Images/Corbis

Da tempo sostiene che sia necessario introdurre lo psicologo in tutte le scuole: deformazione professionale o assoluta necessità?

«In Italia siamo ancora abituati a pensare che lo specialista serva soltanto nei casi patologici. Così ci ritroviamo ad avere dei ragazzi che non si confidano mai: né con i genitori né con gli insegnanti. Alcuni di questi, soprattutto alle scuole secondarie, hanno un rapporto poco “intimo” con gli alunni. Ma casi simili, purtroppo, iniziano a emergere anche alle elementari, se già in prima si mettono i voti: non facendo altro che creare competitività tra i bambini sin dal primo giorno. Lo psicologo sarebbe una figura terza di cui i ragazzi non avrebbero alcun timore».

Quali i compiti che potrebbe assolvere tra i banchi?

«Dall’educazione sessuale, di cui quasi mai si parla, alla formazione degli insegnanti. Per finire alla gestione dei rapporti: tra studenti e tra loro e gli insegnanti. Con le dovute accortezze, in questo modo molti casi di bullismo potrebbero essere prevenuti. E se ci fosse una persona che ascoltasse senza giudicare, forse eviteremmo anche i suicidi tra gli adolescenti. Siamo di fronte a dei giovani che stanno perdendo l’identità infantile e si specchiano nei ragazzi più grandi: la loro fragilità è fisiologica. Penso al suicidio di Rosita (l’adolescente di Forlì che ha lasciato una lettera in cui accusava i genitori del suo gesto, ndr): i genitori sono indagati, ma il riconoscimento di una loro responsabilità sarebbe una punizione eccessiva, dopo aver perso una figlia».

Perché i più piccoli rappresentano il punto debole della società?

«Dagli anni ’70 a oggi sono mancate politiche mirate alle esigenze di crescita dei bambini. Oggi scarseggia il gioco spontaneo, nella città ci sono pochi spazi dedicati e i genitori preferiscono mettere il game-boy nello zainetto piuttosto che un pallone per giocare in strada. Da qui la sedentarietà dei più piccoli e l’eccessiva timidezza che può avere un seguito preoccupante».

Quale?

«Il bullismo, da evitare intercettando subito gli eccessi caratteriali: quello dello spavaldo e dell’introverso. Il primo potrebbe diventare il carnefice e il secondo la vittima. Spesso chi subisce è un bambino incapace di comunicare, che non sa difendersi, troppo protetto. A posteriori, però, chi ha più bisogno spesso è il bullo: la cui affermazione dipende soltanto dall’atto di forza. La prevenzione si instaura con le attività di gruppo: in primis la musica, perché richiede concentrazione e favorisce la sensibilità, ma anche gli sport di squadra. Per iniziare va bene anche il “circle time” che si esegue nelle scuole materne: è un momento in cui, sotto la supervisione dell’insegnante, i membri della classe si siedono in cerchio e discutono di un argomento da loro proposto. Così si favoriscono la conoscenza reciproca, la comunicazione e la collaborazione».

“Dai figli non si divorzia”, è il titolo di un suo libro: quanto risulta condizionata la vita di un bambino che cresce con i genitori separati?

Image by © Phil Boorman/Corbis«Si cresce sentendosi dire che dopo aver litigato bisogna saper fare la pace, motivo per cui la condizione diventa inaccettabile per i più piccoli, a meno che alle spalle non ci siano gravi episodi di violenza. Il trauma, però, può essere superato anche senza l’aiuto dello psicologo: prima sul piano cognitivo e poi su quello emotivo. L’unità della famiglia viene al primo posto, ma se le tensioni non sono superabili conviene separarsi. Indossare la maschera non serve: il bambino percepirà comunque che qualcosa non funziona e asseconderà dei comportamenti non spontanei».

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