Wise Society : «Ecco come ho scoperto il bruco mangia-plastica»
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«Ecco come ho scoperto il bruco mangia-plastica»

di Fabio Di Todaro
15 Maggio 2017

Federica Bertocchini, ricercatrice italiana che lavora in Spagna, ha fatto una scoperta che potrebbe consentire di smaltire in maniera naturale un pericoloso inquinante come la plastica

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La ricercatrice toscana Federica Bertocchini ha scoperto il bruco mangia-plastica, foto: C. Hernandez, CSIC

Un bruco, di norma noto ai pescatori che lo usano come esca, per degradare la plastica dei sacchetti della spesa. È questa la scoperta realizzata da Federica Bertocchini, ricercatrice di Piombino che lavora in Spagna, a Santander: all’Istituto spagnolo di biomedicina e biotecnologia della Cantabria (Csic). Il suo studio sul batterio mangia-plastica, pubblicato sulla rivista scientifica «Current Biology» s’è conquistato le copertine dei principali quotidiani europei. Un risultato mica da poco, per chi ama dire che a una simile scoperta «ci sono arrivata quasi per caso»: al suo fianco Paolo Bombelli e Christopher Howe, del dipartimento di biochimica dell’università di Cambridge, con cui ha portato avanti l’esperimento.

Come ha scoperto che la larva della Galleria Mellonella si nutre di plastica?
«Sono apicultrice per hobby e durante l’inverno tengo i miei alveari in casa, senza api. Nel pulirli, ho visto che erano infestati di bruchi della cera. Il fatto in sé non è sorprendente: queste larve crescono nel pannelli di cera, cibandosi di cera e miele. Pulendo i pannelli, ho messo i bruchi in un sacchetto di plastica, e dopo poco, ho visto che la borsa di plastica era piena di buchi e i bruchi erano in giro».

Cosa siete riusciti a osservare?
«Un centinaio di larve state poste vicino a una busta di plastica nella quale, già a distanza di quaranta minuti, sono comparsi i primi buchi. Dopo dodici ore, la massa della busta si era ridotta di 92 milligrammi: un tasso di degradazione estremamente rapido, rispetto a quello osservato in altri microrganismi capaci di digerire la plastica».

Come s’è spiegata dal punto di vista biologico l’abitudine di questo animale di nutrirsi di plastica?
«Assieme ai miei colleghi, pensiamo che il fatto che questi bruchi mangia-plastica si cibino tra le altre cose anche di cera, possa renderli capaci di rompere il legame chimico caratteristico del polietilene, la plastica delle borsine. Il legame chimico che si trova nella cera è identico».

Quale potenziale applicativo intravede per la sua scoperta?
«Siamo ancora indietro per sbilanciarci. Il passaggio dalla ricerca di base e dalla prima osservazione alla applicazione tecnologica è lungo. Quello che possiamo dire è che si implementa un canale di studio volto alla possibile biodegradazione dei residui di plastica che troviamo nelle nostre discariche e nei mari».

Quanto è realistico pensare che soltanto in questo modo, immaginando che da domani nessuno getti più un oggetto in plastica in acqua, si possa arrivare a ripulire mari e oceani?
«Immaginare che tutta la plastica venga raccolta in appositi contenitori e non ci siano più residui in giro è utopistico. Perciò se riuscissimo, in futuro, a sviluppare una tecnologia per la biodegradazione da applicare su scala industriale, ci avvicineremmo a una possibile soluzione».

Come pensa di conciliare la necessità di ripulire il pianeta dalla plastica con l’esigenza di tutelare la comunità delle api, già in declino?
«L’idea non è di usare il baco della plastica: si tratta di un animale infestante per gli alveari, al primo posto mettiamo il respetto per l’equilibrio della natura. L’idea è quella di studiare i meccanismi molecolari che sono responsabili della reazione, caratterizzare la o le molecole, produrle in larga scala usando le biotecnologie e studiare le condizioni di attività. A quel punto si potrebbe usare questo strumento per degradare la plastica. Ma non i bruchi».

Eppure, nonostante il potenziale della sua scoperta, rimane una ricercatrice precaria: ritiene che questa scoperta possa aiutarla a raggiungere anche una posizione più stabile?
«Non lo so. Io sono nel sistema pubblico spagnolo, l’equivalente del Cnr italiano, con un contratto a termine. Per avere un contratto a tempo indeterminato occorre fare un concorso pubblico. Con i tagli alla ricerca, ci sono stati pochissimi concorsi in Spagna negli ultimi anni. Tanti colleghi, purtroppo, sono nella mia situazione».

Twitter @fabioditodaro

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