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Dalla teoria alla pratica: la filosofia esecutiva per aziende più visionarie e innovative

di Vincenzo Petraglia
9 Febbraio 2021

Raffaele Tovazzi è il primo Filosofo esecutivo in Italia, l'equivalente americano di chief philosophy officer. Una figura che può rivelarsi strategica in un mondo sempre più tecnologizzato, dove le imprese innovative tornano a riscoprire il loro lato più "umano". Vediamo perché

In un mondo sempre più pervaso dalla tecnologia, le imprese più innovative tornano a riscoprire il loro lato più “umano”, investendo – Silicon Valley insegna – su figure professionali caratterizzate da un approccio “out of the box”, da un pensiero laterale in grado di reinventare il Dna aziendale. Per andare oltre lo scontato e il déjà vu e generare nuovi modelli di business e vera innovazione. È così che nasce la figura del Filosofo esecutivo, introdotta in Italia da Raffaele Tovazzi e che ha come equivalente americano il cpo (chief philosophy officer), perché la filosofia, anche in azienda, può aiutare a cambiare la prospettiva da cui guardare le cose, individuando nuovi modelli di pensiero e nuove prospettive di business, riuscendo laddove manager e amministratori delegati magari falliscono.

Naturale evoluzione della filosofia vista nella sua accezione più classica, obiettivo della filosofia esecutiva è tradurre il “pensiero in azione” e materializzare in concreto la vision aziendale. Ma vediamo in cosa consiste esattamente il lavoro di un filosofo esecutivo e quale il valore aggiunto che può dare a un’impresa.

A spiegarcelo Tavazzi, primo filosofo esecutivo in Italia, specializzatosi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con in bacheca  progetti e collaborazioni con grandi brand internazionali, autore di bestseller e fra i massimi esperti di Programmazione Neuro Linguistica nel nostro Paese, fondatore del blog “Filosofia Esecutiva”, il più seguito e commentato nella storia della filosofia italiana trasformatosi in seguito in un vero e proprio “Movimento Filosofico”, con lo scopo di condividere conoscenza.

Raffaele Tovazzi

Classe 1980, Raffaele Tovazzi è il primo Filosofo esecutivo in Italia.

Raffaele, ci dica innanzitutto che cos’è un filosofo esecutivo.

Rispondo partendo da che cosa non è: un professore di filosofia; un divulgatore; un teorico. Il filosofo esecutivo è un esploratore del pensiero che non si ferma alla sola teoria ma diventa sperimentatore della stessa per sottoporla al vaglio della pratica: il filosofo esecutivo è “pensiero in azione”.
 
Di cosa si occupa nello specifico e qual è nella pratica il suo lavoro?

Lavoro con imprenditori e manager che vogliono trovare il modo di tradurre in pratica il proprio pensiero, sia esso un nuovo prodotto o una nuova azienda. Nella pratica il mio lavoro funziona in questo modo: ogni giorno il telefono suona e dall’altra parte c’è qualcuno che mi chiede “Come possiamo comunicare questa idea al mercato?”
D’altronde le idee sono sempre state oggetto delle ricerche dei filosofi, chi fa il mio mestiere non si limita a contemplarle ma cerca il modo di tradurle in pratica attraverso gli strumenti della comunicazione.

Lei è il primo filosofo esecutivo in Italia…

Non sono solo il primo filosofo esecutivo in Italia, ma sono colui che ha coniato questa espressione, che deriva dalla mia tesi di laurea intitolata “Filosofia Esecutiva”. Questa professione in verità non è poi così innovativa, a ben pensarci la relazione tra Aristotele ed Alessandro Magno – con tutte le dovute distinzione storiche – non differisce molto da quel che faccio io ogni giorno con i miei clienti. Ma se parliamo dell’epoca contemporanea e quindi del filone a cui io appartengo, è innegabile che il consolidamento di questa tendenza sia partita nella cultura anglosassone, ed in particolare negli Stati Uniti e nella Silicon Valley, dove i filosofi esecutivi non vengono considerati meno importanti di ingegneri e programmatori quando si parla di innovazione. Perché ogni innovazione parte dal pensiero.
 
Come si diventa filosofi esecutivi?

Studiando, tanto. E non mi riferisco solamente ai grandi classici ma anche ad una ricerca e sperimentazione costante – nel mio caso quasi ossessiva – di qualsiasi nuova tendenza, piattaforma o trend in materia di comunicazione. Poi, osservando. Osservando come si comporta la gente per identificare a quale mezzo di comunicazione affida la propria modificazione comportamentale. Infine, sperimentando. Utilizzare i mezzi di comunicazione come proprio laboratorio artigianale, per testare in piccolo ciò che verrà poi applicato ai grandi marchi con cui lavoro.

Ci aiuti a capire la differenza fra filosofia e filosofia esecutiva…

Negli ultimi anni c’è stato un bel cambio di paradigma rispetto alla filosofia, in passato vista come qualcosa di astratto e “inutile” per il mondo economico-aziendale, oggi invece sempre più presa in considerazione come parte integrante di team composti da professionisti fra loro spesso anche molto eterogenei come formazione e specializzazioni. Io distinguo tra filosofia speculativa e filosofia esecutiva. La seconda non è meno importante o degna della prima. Credo che al mondo esistano eminenti studiosi che pensano senza agire. Chiamiamoli Filosofi. Credo esistano facoltosi imprenditori che spesso agiscono senza pensare. Chiamiamoli Esecutivi. La filosofia esecutiva unisce i due estremi, la teoria alla pratica. In questo senso chiunque si impegni a fare innovazione – dal latino in nova agere, “metto in azione idee nuove” – va considerato un filosofo esecutivo, sia che si tratti di un artigiano, di un musicista, di un manager o di un imprenditore.

disegno lampadina

Foto: Absolutvision / Unsplash

Qual è il valore aggiunto che una figura professionale come la sua può dare a un’organizzazione?

Questo dovrebbe chiederlo ai miei clienti. Ma credo la possibilità di esplorare nuovi orizzonti di pensiero, traducendoli in pratica attraverso i più innovativi mezzi di comunicazione. Se è vero che “in principio era il verbo” è solo attraverso una ricerca di nuovi linguaggi che possiamo dare vita a mondi differenti. E più mi guardo attorno più mi rendo conto che questa necessità sta diventando sempre più urgente per sopravvivere e, auspicabilmente, prosperare.
 
Si parla spesso – in molti casi abusandone – di resilienza. Come si coltiva questa attitudine in azienda, ma anche nella vita di ciascuno di noi?

Concordo, termine abusato e superato. All’interno di un micro-cosmo azienda esistono tre “filosofie” possibili: fragile, resiliente e antifragile. Il fragile teme gli agenti esterni sapendo che il cambiamento potrebbe mettere a repentaglio la propria sopravvivenza, come la famosa spada di Damocle; il resiliente confida di sopravvivere ai “cigni neri” delle crisi, un po’ come l’araba fenice; l’antifragile prospera grazie agli agenti esterni che minano la sopravvivenza dei più, e il riferimento qui è il mito di Idra, il mostro a cui ogni volta si tagliava una testa ne spuntava un’altra. 

Il problema della resilienza è che viene spesso basata su una presunta possibilità di un ritorno al passato, che non avverrà mai. D’altronde il termine “crisi” deriva dal greco e significa “scelta”. Oggi viviamo in tempi di crisi perché viviamo in tempi di scelte. E la scelta di rivolgere lo sguardo al passato e a ciò che “fino a qualche anno fa era” non è una saggia scelta. Occorre dunque avere il coraggio di guardare al futuro e a ciò che ancora non è, andando oltre sè stessi, oltre i propri limiti, oltre la stessa resilienza. 

Lei si è laureato con una tesi sul perché l’università italiana non potrà mai essere motore di sviluppo economico e sociale, soprattutto perché – la cito – “a formare i giovani c’è gente che non ha mai lavorato un solo giorno nella propria vita”. È ancora convinto di ciò o nel frattempo ha cambiato idea?

Sempre più convinto. Sono felice di aver fatto l’università e mi auguro i miei figli scelgano di proseguire gli studi. Ma non per avere un vantaggio competitivo, visto che le università sono diventate fabbriche di disoccupati, bensì per amore della cultura e per il piacere della ricerca.

Di cosa avrebbe bisogno il nostro Paese, e nella fattispecie l’università italiana, per diventare motore di cambiamento e innovazione?

Io sono stato spesso invitato dalle università a parlare della mia professione, una professione che mi sono di fatto inventato. Nessuna di queste università era italiana. Con questo che cosa voglio dire? Voglio dire che le università dovrebbero aprirsi al mondo dell’impresa e al tempo stesso le imprese dovrebbero collaborare con le università. Sogno un mondo accademico in cui tra i professori possano trovare spazio un giorno grandi imprenditori, grandi manager, grandi individualità che nella vita hanno prodotto risultati straordinari. Per poter istruire gli studenti, ma anche ispirarli a rimboccarsi le maniche, a sporcarsi le mani, e a mettere il proprio “pensiero in azione”.

Un’azienda saggia, “wise” appunto, quali caratteristiche dovrebbe avere?

Un’azienda wise penso dovrebbe avere come obiettivo il non aver più bisogno di me e formare internamente filosofi esecutivi.

Vincenzo Petraglia

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