Quello della cultura è un settore strategico per il nostro Paese, visto l'immane patrimonio storico-artistico che custodiamo, eppure ancora non sfruttato a sufficienza. In quest'intervista Fiorenzo Galli, direttore del Museo della Scienza e della Tecnologia "Leonardo da Vinci" di Milano, il più visitato fra i musei meneghini, ci mostra in maniera un po' visionaria scenari e best practice da seguire
Fa specie che un Paese come il nostro, custode di un patrimonio storico-artistico senza eguali, non abbia nessun museo tra i dieci più visitati al mondo e che realtà come il Louvre facciano da sole lo stesso numero di visitatori di tutti i musei italiani messi assieme. Qualcosa c’è evidentemente che non funziona, a partire dall’annoso problema dei conti perennemente in rosso con cui la massima parte di essi deve confrontarsi. Con Fiorenzo Galli, direttore generale del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano, il più visitato fra i musei meneghini con oltre mezzo milione di visitatori l’anno, parliamo di questo, ma anche e soprattutto di altro. Di scenari possibili, di spazi futuribili e idee visionarie, di come generare ricavi tramite una gestione più moderna e meno burocratica e di come sfruttare meglio le occasioni offerte oggi dalla tecnologia per rendere i musei spazi aperti e di incontro, di dialogo e democrazia, lontani anni luce dall’idea consolidata che probabilmente si ha, soprattutto fra i giovani, di luoghi vecchi, polverosi, noiosi.
Come si trasforma una realtà come quella che dirige da museo in grande difficoltà a spazio di grande successo diventato il più visitato di Milano?
Con la costruzione di un team motivato e competente. Con l’individuazione progressiva di obiettivi ambiziosi ma raggiungibili. Con un modello di sostenibilità economico-finanziaria pubblico-privato molto diversificato. Con la difesa dell’autonomia di gestione da ingerenze esterne.
Perché in un Paese che detiene il primato del patrimonio storico-artistico mondiale non riusciamo a vivere per la massima parte di quello e nessun museo italiano appare tra i 10 più visitati al mondo o, ancora, musei come il Louvre fanno lo stesso numero di visitatori di tutti i musei italiani messi insieme?
Forse la domanda è da rivolgere alla classe dirigente politica.
Cosa si potrebbe e dovrebbe fare per valorizzare di più questo nostro immane patrimonio?
Riuscire, come in ogni contesto organizzato, a selezionare una classe dirigente capace, coraggiosa, visionaria e in grado di liberarsi – senza cadere in modelli autoritari – del pesante retaggio, ormai insostenibile, di costi e vincoli burocratici, i quali sono una struttura di potere e non di servizio: probabilmente un’utopia, che vale anche per altri settori.
Spesso i musei vengono percepiti e vissuti come qualcosa di chiuso, vecchio, polveroso, poco aperto al territorio e alla modernità. Voi avete investito molto proprio per creare un luogo che sia l’esatto opposto…
Perché, essendo libero, un cittadino, una famiglia, una scuola, dovrebbe venire nel nostro museo? Abbiamo lavorato sull’attrattività, pensando in termini di progetti. Quindi abbiamo investito sulle competenze, generato un humus reattivo alle esigenze, anche quelle relative alle capacità di autofinanziamento, ora molto alto; abbiamo lavorato sul “fare facile”: generato le migliori condizioni possibili per sviluppare la nostra realtà nel contesto delle maggiori competenze. E, infine, continuiamo a lavorare sulle infrastrutture e sullo sviluppo di politiche culturali di valore e livello internazionale.
Un altro problema molto importante è che spesso i musei italiani non vengono gestiti come aziende che, come tali, devono produrre ricavi, e infatti sono quasi sempre in perdita. Perché questo tipo di approccio?
È una questione di leggi e di mentalità: ci vuole una classe dirigente che intuisca come la cultura – difendendo comunque la sua autonomia – possa convivere con logiche che ne consentano un proficuo mantenimento.
Voi che modello di sostenibilità economica avete seguito?
Come già accennato, il modello è quello della maggiore efficacia possibile di un rapporto pubblico-privato. Siamo una realtà decisamente privata – giuridicamente come Fondazione privata a partecipazione pubblica non di controllo – ma pubblica per quanto riguarda il perseguire finalità di interesse generale, e per il controllo contabile e amministrativo ministeriale e della Corte dei Conti.
In Italia spesso ci si scandalizza se un museo viene messo a disposizione per eventi apparentemente poco “culturali”, penso agli eventi aziendali per esempio, come invece da tempo di fa all’estero già da tempo… Lei come la vede?
Nel 2019 abbiamo organizzato e ospitato oltre 250 eventi, di cui diversi di natura commerciale: il ricavato ha sostenuto i costi fissi, compreso il capitale umano, per i quali i contributi pubblici non sono mai stati sufficienti, attivando risorse per lo sviluppo culturale.
Fondamentale per un museo è anche la sua capacità di comunicare…
Abbiamo uno staff nutrito, motivato e competente che se ne occupa con una professionalità che ci è invidiata anche dalle aziende.
Le persone che lavorano nel museo che dirige che professionalità, che percorsi formativi e professionali hanno?
Molto diversi, secondo i compiti: storici dell’arte, storici della scienza, fisici, chimici, ingegneri, biologi, PhD in education, ingegneri gestionali, esperti di comunicazione digitale, di comunicazione istituzionale, uffici stampa, laureati in economia e gestione dei beni culturali, esperti di cicli passivi, Master in fundraising, ma amalgamati, negli anni, in un team omogeneo.
Da direttore di un museo dedicato alla scienza e alla tecnologia, cosa pensa sia l’innovazione? Che cosa significa oggi – in un’era in cui sembra essere stato inventato ormai di tutto – innovare?
Il termine innovazione non mi è mai piaciuto, lo trovo sterile: preferisco progresso, che comprende la necessaria attenzione per il ruolo umano, per chi genera sviluppo e poi per chi lo accoglie come stile di vita.
Quanto la pandemia che stiamo vivendo potrebbe essere un’occasione per progredire? Su quali fronti secondo lei?
È un’occasione per riflettere su un nuovo modello, in una nuova narrazione umana. Dopo il tramonto di nazifascismo e comunismo, la liberaldemocrazia occidentale mostra segni di cedimento e tramonto all’orizzonte. Serve un nuovo modello che abbia riguardo e attenzione per i più deboli e i più fragili, senza trascurare le necessarie libertà d’azione.
Qual è il contributo che la cultura può dare alla ripartenza del Paese dopo la pandemia
Quello della riflessione, della bellezza, del rifiuto della mediocrità. Lo stile di vita italiano, le cui matrici sono di natura culturale, è ammirato nel mondo.
Come si immagina i musei del futuro? Musei in grado di attrarre anche i giovanissimi, in genere – spesso non per loro demeriti, ma forse anche per il modo in cui la cultura, la storia, l’arte vengono fatti percepire all’interno delle scuole – più restii a visitarli?
Luoghi aperti, non banali, in grado di fornire fascinazione per i nostri valori: i musei hanno uno spirito e una storia locale, imprescindibile, e devono saper guardare al globale, che ormai ci riguarda completamente.
Il digitale, le esperienze immersive, avranno sicuramente un ruolo sempre più importante…
Senza esagerare: si devono riconquistare i luoghi fisici, in cui nasce e si sviluppa il dialogo e il convivere. In cui ci siano i prodromi migliori di quelle cose, un po’ da ripensare, che abbiamo chiamato democrazia.
Perché è così importante rendere i musei luoghi “vivi”, inclusivi, di incontro?
Perché è opportuno pensare, ogni tanto fermarsi a riflettere, da soli, o insieme. E sfuggire al neo-nichilismo del “bombardamento informativo indifferenziato” che la tecnologia ci ha regalato ma che è diventato anche una minaccia. Abbiamo strumenti compensativi: la cultura, i musei, i teatri… Sono luoghi perfetti per queste necessità.
Cosa pensa della decisione di chiudere i musei per l’emergenza Covid-19? La cultura è il motore di un Paese e di un popolo e forse non si dovrebbe fermare mai…
Posso capire il raggruppare per categorie, ma i musei non sono tutti uguali, hanno potenzialità, dimensioni, spazi e organizzazioni molto diverse. Nei nostri cinquantamila metri quadri, mille visitatori con ingressi contingentati quasi non si vedono: ma comprendo il taglio netto in un Paese che non accetta decisioni selettive.
Nella vostra ragion d’essere, nella vostra mission, si legge: “L’obiettivo generale del Museo è concorrere a sviluppare la ‘cittadinanza scientifica’, cioè il complesso di competenze utili per comprendere le implicazioni e le interazioni della scienza e della tecnologia sulla vita quotidiana e le loro interazioni con altri settori del sapere e della società”. Ci spieghi meglio…
Dare comprensione ai cittadini, e in particolare alle nuove generazioni, della valenza – termine chimico non usato a caso – di ricerca scientifica e applicazioni tecnologiche nelle nostre realtà quotidiane: mantenendo ben presente la centralità umana.
Cultura e sostenibilità a 360 gradi in che rapporto stanno?
In termini Hegeliani, il possesso e la gestione delle tecnoscienze sono diventati il primo scopo: produrre beni e servizi per soddisfare bisogni. Uno strumento potentissimo. Il punto di equilibrio è “glocal”: salvaguardia globale e progresso per il pianeta e, contemporaneamente, attenzione e rispetto per i valori locali. La cultura può aiutare a dare senso a questa esigenza.
Questo periodo di Coronavirus vi ha visti impegnati su diversi fronti. Mi racconta brevemente i progetti “Il Museo ospita le vaccinazioni antinfluenzali”, “Storie Digitali @Museoscienza” e “Museo dietro l’angolo”?
Si tratta di rispettare nella sostanza quel “patto di comunità” necessario sempre, non solo in emergenza. Siamo legati al “fare”, come scelta e come attitudine. E, come tutti, al nostro territorio.
Vincenzo Petraglia