Alla 17esima conferenza Onu in Sudafrica si è raggiunto un accordo mondiale su politiche comuni di contrasto al global warming. Ma con un limite rischioso: tempi troppo lunghi
Si è conclusa con due giorni di ritardo (l’11 dicembre scorso) a Durban, in Sudafrica, COP 17, ovvero la diciassettesima Conferenza delle Parti, iniziata il 28 novembre. Il negoziato ha visto la presenza dei delegati di oltre 190 Paesi, tutti riuniti per la lotta contro il riscaldamento globale. I risultati? Dipende dal punto di vista. È dal lontano Summit della Terra del 1992, quando venne sollevato il problema e definita la United Nation Framework Climate Change, ovvero Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, si sta a fatica cercando di stilare un accordo per coinvolgere il mondo intero su questo fronte, quest’anno, seppur con alcuni limiti ci si è arrivati. Ogni anno, dal 1995, tra la fine di novembre e la metà di dicembre, rappresentanti governativi, organizzazioni ambientaliste e non governative in genere, e molte altre figure impegnate su questo fronte, si ritrovano per cercare di raggiungere un accordo sempre più urgente ed efficace.
La meta è il contenimento del riscaldamento terrestre entro i due gradi, limitando le emissioni di gas serra. Qualora non ci si riuscisse le conseguenze sarebbero catastrofiche: per certo l’acqua cancellerebbe gli Stati insulari come le Maldive e la siccità renderebbe impossibile la vita in Africa. Viste le diverse posizioni, le discussioni sono durate più del previsto e in qualche modo hanno evitato il fallimento del trattato, seppure con dei limiti. Dopo due settimane di consultazioni, solo all’ultimo momento Maite Nkoana-Mashabane, il ministro degli esteri del Sudafrica presidente della conferenza, ha presentato i documenti redatti sulla base della mediazione sudafricana. Tre i punti cruciali: la definizione di accordo globale entro il 2020, il prolungamento del Protocollo di Kyoto in scadenza alla fine del 2012 e rendere operativo il “Green Climate Fund”, il Fondo verde per il clima per aiutare i paesi in via di sviluppo ad adattarsi ai cambiamenti del clima.
Il risultato inedito è che si è raggiunto un accordo mondiale, condiviso dai 193 Stati aderenti all’UNFCC, per creare politiche comuni di contrasto alla lotta contro i cambiamenti climatici. La Durban Platform for Enhanced Action, connotata come “ uno strumento legale o una soluzione concertata avente forza di legge”, dovrà assumere contorni precisi entro il 2015 e adottata entro il 2020. Dovrà coinvolgere per la prima volta tutti i grandi produttori di CO2, dagli Stati Uniti alla Cina, compresi India, Brasile, ma anche Canada e Australia. Cosiderata un successo dal segretario europeo per il clima Connie Hedeegard, proprio per la globalità che la caratterizza, è ritenuta un accordo debole dalle organizzazioni ambientaliste, per un limite fondamentale: quello della tempistica. «Sono tempi troppo lunghi rispetto a quanto richiesto dalla comunità scientifica» ha dichiarato Maria Grazia Medulla responsabile policy clima e energia del Wwf, «se vogliamo salvarci dobbiamo stare entro un grado e mezzo». Anche il gruppo degli AOSIS, i trenta stati insulari che rischiano di scomparire con l’innalzarsi dei mari, hanno giudicato insoddisfacente l’accordo e contano di battersi per renderlo più stringente.
L’Europa esce a testa alta, assieme a Norvegia, Svizzera, Australia e Nuova Zelanda, ha aderito al prolungamento del protocollo di Kyoto fino al 2018, riconquistando la leadership nella battaglia contro il surriscaldamento del pianeta. Una fase, quella di Kyoto 2, che fa da ponte prima dell’adozione dell’accordo globale. Purtroppo gli aderenti a Kyoto 2 rappresentano solo il 14 percento delle emissioni globali, mentre Canada, Russia e Giappone si sono sfilati dall’accordo e gli Stati Uniti, dopo la Cina i secondi inquinatori al mondo, continuano a non aderire. «Non a caso il presidente americano Obama ha le mani legate dal Congresso, così come il Canada, trasformatosi da pro-Kyoto in no-Kyoto a causa dell’alternanza del governo», racconta Emanuele Bompan, ricercatore dell’Università di Bologna, che da anni segue le “COP”. Inoltre è stato dato il via all’attuazione del “Green Climate Fund”, un fondo da 100 miliardi di dollari l’anno da destinare ai Paesi in via di sviluppo per interventi di adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici, che era già stato previsto lo scorso anno alla Conferenza sul Clima di Cancun. Quella che rimane aperta è la questione dei finanziamenti del fondo. Da dove dovrebbero venire? Risponde Bompan:«C’è chi dice dai mercati delle emissioni, chi da una carbon tax, o ancora dalle banche di sviluppo o addirittura dalla leva finanziaria. Gli stati dal loro bilancio vogliono mettere poco, anche se gli Usa sul tavolo hanno messo e 3 miliardi. Per sapere qualcosa di più dovremo aspettare COP 18, che si terrà in Qatar nel 2012».