Nel saggio Maonomics l'economista ci spiega come, in poco più di vent'anni, il Paese sia diventato una superpotenza in grado di sfidare gli Stati Uniti per il primato economico. Grazie a un modello economico, il capi-comunismo, che esclude la finanza. E che ci potrebbe aiutare a leggere il nostro sistema
Loretta Napoleoni è un’esperta di terrorismo a livello mondiale, economista e saggista; romana, ha studiato alla London School of Economics e vive a Londra da vent’anni. Attualmente collabora con numerose forze dell’ordine, tra cui la Homeland Security statunitense, l’International Institute of Counter-Terrorism israeliano e la polizia catalana. Consulente per i network televisivi BBC e CNN ed editorialista per testate internazionali quali El Pais, Le Monde e The Guardian, ha scritto Maonomics, un neologismo che si potrebbe tradurre come “l’economia nel paese di Mao“.
Una delle tesi del suo libro è che noi occidentali continuiamo a leggere ciò che accade in Cina attraverso le lenti deformanti di vecchi stereotipi che ci impediscono di capire i radicali cambiamenti in atto nel paese.
Sì, noi pensiamo alla Cina come se fosse rimasta ferma alla fine degli anni ’80, alla tragedia di Piazza Tienanmen e al comunismo di Mao.
In realtà, quando in quegli anni l’Occidente ha aperto i mercati alla globalizzazione, pensando all’espansione del nostro capitalismo basato sulla celebrazione del libero mercato, chi ha saputo trarne vantaggio sono state le cosiddette economie emergenti.
Mentre i Paesi occidentali oggi sono in piena crisi, la Cina registra una crescita del 9% e le previsioni per il 2010 ipotizzano addirittura il 12%, dimostrando che, come capitalisti, i comunisti cinesi sono più bravi di noi.
Lei infatti descrive il modello economico cinese definendolo “capi-comunismo”.
Con questa definizione intendo un sistema ibrido, molto più flessibile di quello occidentale, nel quale l’iniziativa privata è incoraggiata e sostenuta, ma il capitalismo è guidato e regolamentato dallo Stato.
Il governo cinese tiene saldamente in mano le redini dell’economia e negli ultimi venti anni ha resistito a tutte le pressioni da parte dei governi occidentali di liberalizzare il mercato. Non ha aperto ai mercati finanziari, così come non ha convertito la moneta nazionale.
Tutto ciò è possibile grazie anche al fortissimo consenso di cui gode.
Il contratto sociale tra la popolazione e la classe dirigente poggia sul benessere; finché questo crescerà e sempre più persone potranno beneficiarne, il consenso resterà alto e il popolo sarà d’accordo con il partito al potere.
Benessere economico in crescita, ma la Cina non è certo un campione in tema di diritti umani e sociali. Non possiamo dimenticare che per molti reati è prevista e applicata la pena di morte, i dissidenti vengono imprigionati, la censura di Internet, lo sfruttamento e la mancanza di garanzie sindacali per i lavoratori.
Certamente tutto questo non si può negare; la realtà cinese è molto complessa e al suo interno convivono progresso e arretratezza.
Non penso certo che dovremmo importare il modello cinese nel nostro Paese, da noi così com’è sarebbe impensabile e non potrebbe funzionare.
L’intento di questo libro è di spingere i lettori italiani a confrontarsi con l’analisi di questo modello, usandolo come chiave di lettura per capire perché noi siamo usciti sconfitti dal processo di globalizzazione mentre la Cina è riuscita a cavalcarlo e a usarlo per diventare una grande potenza economica.
Il problema è che nel nostro Paese la politica è incapace di gestire l’economia.
Mentre i Paesi occidentali negli ultimi anni hanno perso terreno non solo riguardo il potere d’acquisto, ma anche in relazione a diritti, garanzie e welfare, la Cina sta lentamente avviando riforme sociali importanti e persino qualche libertà politica. La legislazione sul lavoro del 2007 garantisce maggiore protezione ai lavoratori rispetto agli anni ’90 e ci sono elezioni amministrative a livello di province e regioni. Ciò che è successo a Tienanmen nel 1989 oggi sarebbe impensabile.
Lo sviluppo economico della Cina deve fare i conti anche con la sua politica energetica; tra i suoi primati meno invidiabili c’è anche quello di essere il Paese che inquina di più al mondo.
La Cina è il Paese che inquina maggiormente al mondo perché è un Paese che si sta industrializzando; la maggior parte dell’inquinamento è dovuto proprio alle nuove grandi industrie. Al tempo stesso però è anche il primo investitore al mondo in energia alternativa, poiché ha capito che la sua rivoluzione industriale non può essere sostenuta senza una rivoluzione energetica.
Per questo motivo si è data come obiettivo l’indipendenza dagli idrocarburi ed ecco perché si propone di arrivare a coprire i due terzi del fabbisogno del paese con le energie rinnovabili entro il 2050.
Consiglierebbe ai ragazzi italiani di cercare lavoro in Cina?
Certo, perché no? Io conosco molti occidentali che si sono trasferiti a Shangai, spesso senza sapere neppure una parola di cinese. La Cina rappresenta una nuova modernità, è il laboratorio del futuro, conoscere ciò che sta accadendo lì è fondamentale per noi e per il resto del mondo.