Per fronteggiare i suicidi all'interno della città-fabbrica Foxconn i manager ricorrono a singolari strategie. Come l'arruolamento di monaci buddisti
Nonostante l’assunzione di un centinaio di monaci buddisti e l’obbligo a firmare una clausola anti-suicidi nei contratti, è salito a dieci il numero dei dipendenti della Foxconn che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Lo stabilimento di Longhua, la più grande città fabbrica del mondo, con 300mila operai che lavorano e vivono al suo interno, produce componentistica per l’industria elettronica globale. Non c’è televisore Sony, telecamera Samsung, computer Dell, telefonino Nokia, iPod (e ora anche iPad) targati Apple, che al suo interno non contenga almeno un pezzettino sfornato dalla città-fabbrica di Longhua, dodici chilometri di stabilimenti, catene di montaggio, magazzini, ribalte, piazzali gremiti di camion, mense e dormitori. Il padre padrone della Foxconn, Terry Gou, ha la fama di duro imprenditore. Nel giro di trent’anni è riuscito a trasformare un negozio di elettrodomestici in uno dei più grandi colossi manifatturieri del pianeta anche arrivando a costringere gli operai dell’azienda a lavorare fino a 80 ore di straordinario. Per far fronte ora all’emergenza suicidi e la reputazione di fabbrica-lager Gou ha annunciato un piano di espansione verso ovest che dovrebbe permettere ai giovani di lavorare per Foxconn in stabilimenti vicini alle loro terre d’origine. Intanto anche Dell, dopo Apple e Hewlett-Packard, ha deciso di avviare un’indagine sui suicidi.