Pubblicare foto e video dei propri figli, raccontando la loro vita nei minimi dettagli, è un’abitudine tutt’altro che innocua. Scopriamo quali sono i rischi dello sharenting e come evitarli
La ecografia; la foto di un fagottino ancora in ospedale, appoggiato al petto della mamma; il bagnetto, la prima pappa, i primi passi; il soffio delle candeline sulla torta di compleanno; i primi giorni di scuola che si susseguono ogni settembre; il saggio di fine anno e il punto decisivo alla partita di basket; gli aneddoti più buffi e teneri della quotidianità. Quante volte ci è capitato di seguire questi e altri momenti della vita dei bambini attraverso i profili social dei loro genitori? Questo fenomeno ha un nome, sharenting, e purtroppo è tutt’altro che innocuo. Scopriamo cos’è e quali problemi nasconde.

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Il significato di sharenting
Cos’è lo sharenting? In realtà non esiste una traduzione letterale del termine perché è un neologismo che deriva dall’unione di due parole in inglese: il verbo to share, condividere (tipicamente sui social network) e il sostantivo parenting, genitorialità. In sostanza, si parla di sharenting quando i genitori hanno l’abitudine di pubblicare online foto, video o altri contenuti che riguardano i propri figli minorenni.

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Quanto è diffuso lo sharenting
Di per sé, quest’abitudine è assolutamente comprensibile. I social media sono una finestra sulla vita degli altri, una vita che – quando si è genitori – è indissolubilmente legata a quella dei figli, soprattutto quando sono molto piccoli. Con la diffusione pervasiva degli smartphone, però, si sono moltiplicate le opportunità per immortalare – e diffondere – momenti che un tempo restavano privati. Stando a quanto riporta uno studio pubblicato sul Journal of Pediatrics, a cui ha contribuito anche la Società italiana di pediatria, i genitori europei condividono foto e dati sensibili sui loro bambini con una media di 300 volte all’anno. Soprattutto su Facebook (54%), Instagram (16%) e Twitter (12%).
In Europa il 73% dei bambini e delle bambine ha una presenza online di qualche tipo prima dei due anni di età, una percentuale che sale al 92% negli Stati Uniti. Ma circa un bambino su quattro fa il suo debutto su internet ancora prima di nascere, con la pubblicazione delle ecografie o di altri dettagli della gravidanza.
I rischi dello sharenting
Pubblicare le foto dei minori sui social, però, espone a rischi di vario tipo. Innanzitutto, significa perderne il controllo: chiunque può scaricare quei contenuti, condividerli, fare degli screenshot e diffonderli a terzi. Con le piattaforme di intelligenza artificiale, inoltre, quei contenuti possono essere manipolati, anche con l’intento di trasformarli in materiale pedopornografico.
I rischi dello sharenting non sono limitati a foto e video: è altrettanto pericoloso far conoscere dettagli privati sulla vita dei bambini, per esempio l’indirizzo di casa, la scuola che frequentano, l’identità di parenti e amici più stretti, le abitudini (come il tragitto casa-scuola o gli orari). Sono tanti tasselli che vanno a comporre un ritratto estremamente accurato: e non è da escludere che qualche malintenzionato possa approfittarne.
Eppure anche i bambini hanno diritto alla propria privacy. Lo sanciscono la Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e, più recentemente, il regolamento europeo sulla protezione dei dati (noto come GDPR). Anche perché non resteranno bambini per sempre: man mano che cresceranno e diventeranno autonomi nelle piattaforme digitali, si renderanno conto di essere stati esposti a propria insaputa e non potranno più fare niente per evitarlo. Ai rischi per la sicurezza, dunque, bisogna aggiungere quelli per la psicologia degli adolescenti.

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Consigli per tutelare la privacy dei propri figli
Il Garante della privacy, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef) e Save the children hanno pubblicato varie linee guida su come proteggere la privacy dei propri figli online. Ripercorriamo le indicazioni più importanti per evitare di cadere nella trappola dello sharenting:
- Rendere irriconoscibile il viso del minore, per esempio usando i filtri per pixellarlo oppure ritraendolo di spalle.
- Verificare le impostazioni sulla privacy dei social network e renderle più restrittive: quando si pubblicano contenuti sensibili, per esempio, si può impostare una lista degli “amici più stretti” o disabilitare la possibilità di condividerli.
- Non creare account social a nome del minore.
- Non condividere dettagli intimi o imbarazzanti, come le immagini del minore nudo (per esempio in spiaggia o durante il bagnetto) o momenti in cui è vulnerabile, malato, nel pieno di una crisi.
- Assicurarsi che non sia possibile ricostruire in modo troppo preciso le abitudini del bambino o della bambina, i luoghi che frequenta o i suoi orari: a tale scopo è utile per esempio non geolocalizzare i contenuti ed evitare di pubblicarli in tempo reale.
- Oscurare i volti di altri minorenni che compaiono nelle foto o nei video – o, al limite, chiedere il consenso dei genitori.
- Quando i propri figli diventano un po’ più grandi, chiedere il loro consenso prima di pubblicare qualche contenuto che li riguardi: è un’ottima “palestra” di educazione digitale.
- Impostare password solide per dispositivi e app, possibilmente con l’autenticazione a due fattori, tenere aggiornati i software e installare un antivirus.
La proposta di legge sullo sharenting
In Italia sono state depositate in tutto sette proposte di legge sullo sharenting, tra Camera e Senato. Alcuni – come la proposta di legge Ricchetti – si focalizzano più che altro sull’uso dei social media da parte dei minori, alzando dai 14 ai 15 anni l’età minima per aprire un profilo e attribuendo alle piattaforme la responsabilità di verificare l’età degli utenti.
La proposta di legge Sportiello, invece, cerca di tutelare i cosiddetti baby influencer e riconosce il diritto all’oblio digitale: ciò significa che, una volta compiuti i 14 anni, il minorenne può chiedere la rimozione delle immagini di quando era più piccolo. La proposta di legge Madia-Mennuni, invece, introduce una serie di obblighi per la tutela dei minori a carico dei fornitori dei servizi online.
Valentina Neri