L'economista greco Nicholas Economides della Stern School of Business di New York segnala alcuni punti cruciali del prossimo futuro. Dalla fragilità socio-economica della Cina all'urgenza di ampliare il fondo salva Stati europeo
Economista di fama internazionale e di prestigiosa esperienza universitaria, Nicholas Economides insegna attualmente alla Stern School of Business di New York. I suoi campi di specializzazione e di ricerca includono l’economia delle reti, in particolare delle telecomunicazioni, computer e informazione. Ma è anche molto competente nei settori del commercio elettronico e delle politiche pubbliche.
Autore di più di cento articoli sulle principali testate accademiche del mondo, è fermamente convinto del fatto che per uscire dalla crisi internazionale servano politiche di rilancio, non di austerità, senza le quali i Paesi maggiormente colpiti non risolveranno i loro problemi facilmente.
Favorevole alla svolta “tecnica” della guida politica italiana, auspica una soluzione analoga anche per la Grecia. Non crede invece a suggestive ipotesi di fanta-economia riguardo all’instabile situazione europea, quanto piuttosto a responsabilità precise nella mancata ricezione e soluzione dei segnali di allarme arrivati da più parti. E per il gigante asiatico cinese prevede nubi all’orizzonte.
Secondo lei, ci troviamo a metà o alla fine di questa drammatica situazione economico-finanziaria?
Siamo tuttora nel mezzo di questa emergenza, che ha colpito il debito globale e il sistema bancario.
Quali, nella sua opinione, le “chiavi” per uscirne il prima possibile?
Gli strumenti indispensabili sono due. Il primo è una forte espansione dei meccanismi di salvataggio del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (fondo salva-Stati) e del Meccanismo Europeo di Stabilità a cinque trilioni di euro. Senza questo intervento ci saranno attacchi continui al debito sovrano di Paesi come la Spagna e l’Italia.
L’altro invece è la creazione di un fondo/piano per investire nelle nazioni maggiormente colpite quali la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna e l’Italia. Perché non riusciranno a uscire dalla crisi attraverso misure di “austerity”. Ma hanno bisogno di investimenti e, per fare ciò, è necessario creare un apposito fondo EU.
Come valuta la posizione dell’Italia ora? Con il nuovo governo Monti a fronteggiare la situazione?
Il governo tecnocrate di Monti è un buon passo avanti e l’esempio dovrebbe essere seguito anche in Grecia. Ma resta il fatto che se le misure citate sopra non venissero adottate, l’Italia avrebbe un’alta probabilità di seguire il destino di Grecia, Portogallo e Irlanda ovvero di dovere chiedere gli interventi di EU e del Fondo Monetario Internazionale.
Come vede il futuro economico di queste nazioni?
Senza nuovi programmi d’investimento dall’estero non saranno in grado di riprendersi e di uscire dalla spirale della crisi.
Ritiene realistica l’ipotesi di una sorta di “guerra” portata avanti dal sistema bancario internazionale contro l’Eurozona?
Gli investitori e gli speculatori mettono i loro soldi dove ci sono profitti facili. La riluttanza di Francia e Germania nel creare un grande fondo salva-Stati significa in concreto che il debito sovrano di molti Paesi europei è facile preda della speculazione.
L’EU ha l’opportunità di mettere fine facilmente a queste manovre attraverso un’espansione massiccia del fondo e del Meccanismo Europeo di Stabilità. Ma finché non lo farà, dovrà soltanto biasimare se stessa.
Nei primi tre mesi del 2012 la crescita economica cinese ha rallentato: si tratta di avvisaglie di bolla immobiliare – come molti osservatori temono – o è un problema di PIL?
La Cina va affrontando sempre nuovi ostacoli man mano che diventa una nazione sviluppata. Ci sono tutta una serie di trasformazioni economiche significative che un Paese fronteggia mentre si trova lungo il percorso dello sviluppo e la Cina è all’inizio di questo cammino.
In aggiunta a ciò, il regime politico e i suoi obiettivi sono in netto contrasto con l’estrema ineguaglianza della ricchezza, e questo può portare a turbolenze sociali o a cambiamenti nella struttura salariale che potrebbero diminuire in modo significante l’attuale vantaggio che ha questa nazione.