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Mario Pianta: per far quadrare i conti bisogna cambiare modello di sviluppo

di Francesca Tozzi
24 Maggio 2012

Secondo l'economista dell'Università di Urbino non si fa abbastanza per combattere recessione e calo dei consumi. Come uscirne? Dire basta a sprechi, disuguaglianze e distruzione delle risorse

Mario PiantaUna politica economica tutta protesa a blandire la finanza internazionale, seguendo la linea tedesca dell’austerità, non può far quadrare i conti pubblici in Italia e tanto meno favorirne la ripresa perché sottrae risorse al Paese, bloccandone la crescita. In piena recessione ci sono problemi di cui il governo Monti non parla, l’Europa non discute, la Germania non vuol sentir parlare, nonostante siano sotto gli occhi tutti. Ne è convinto Mario Pianta, professore di Politica economica all’Università di Urbino, che per uscire dall’impasse auspica un cambiamento profondo della politica europea, con l’introduzione di regole che permettano una crescita sostenibile e tolgano spazio alla speculazione.

Quali sono in Italia e in Europa i problemi più gravi

 

A che punto siamo della crisi, secondo lei?

L’Italia è da diversi mesi in recessione. Secondo il Fondo monetario, il PIL del 2012 dovrebbe diminuire del 2,2 per cento rispetto all’anno scorso, ci sono 800 mila posti di lavoro a rischio nelle imprese in crisi, gli investimenti sono scomparsi, le esportazioni non tirano, la spesa pubblica è in picchiata, la spesa per i consumi è in calo.

L’Italia non è sola, certo: l’intera Europa sta vivendo una riduzione, anche se più lieve, del proprio reddito complessivo, nonostante la sostanziale tenuta della Germania. La recessione segna la vita quotidiana degli italiani, ma non compare nel dibattito politico e non si vede nella politica del governo Monti.

I tagli di bilancio e le politiche di austerità hanno l’effetto di far cadere la domanda e, senza domanda, la produzione non riprende. Eppure, nelle dichiarazioni del governo, la ripresa della domanda non compare mai: fedele all’ortodossia liberista, Mario Monti pensa che produzione e occupazione possano apparire come d’incanto non appena si liberalizzano i mercati e si riducono i costi e le tutele del lavoro.

Cosa c’è di buono e cosa di discutibile nella ricetta montiana per uscire dalla crisi?

Il governo di Mario Monti, sul fronte europeo, deve “garantire” i mercati finanziari e i poteri forti dell’Europa, la Germania di Angela Merkel innanzitutto. L’obiettivo è evitare che l’Italia sia stritolata dalla crisi del debito, e che l’Unione monetaria e l’euro crollino insieme al nostro Paese.

La politica economica è lo strumento con cui questa garanzia viene esercitata, una politica che vuole rassicurare la finanza e il “centro” politico dell’Europa sull’ortodossia liberista della strategia italiana, ma che cerca allo stesso tempo di allargare un po’ la strada che la nostra economia deve percorrere. Esemplare in proposito è l’andamento degli spread, (i differenziali dei tassi d’interesse tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi) un indicatore della mancanza di fiducia dei mercati finanziari nell’economia e nella politica dell’Italia.

Con i tassi d’interesse italiani al 7 percento, il peso del servizio del debito pubblico italiano è insostenibile. Ma le garanzie date alla finanza impediscono di adottare misure “straordinarie” per ridurre i circa 95 miliardi di euro che quest’anno l’Italia deve pagare in interessi passivi.

I pericoli di un’eccessiva austerità

 

Cosa deriva da questa mancata riduzione?

Che la situazione è bloccata. Il “patto fiscale” sottoscritto a Bruxelles da 25 dei 27 Paesi Ue (Londra e Praga esclusi) impone a tutti la dottrina tedesca dell’austerità: il pareggio di bilancio è stato scritto nella Costituzione italiana. Quest’anno in Italia su una spesa pubblica vicina a 800 miliardi di euro, la recessione potrebbe significare 15 miliardi di minori entrate fiscali, e altrettante potrebbero essere le maggiori spese dovute al rialzo dei tassi d’interesse sui 1.900 miliardi di debito pubblico italiano.

All’inizio della crisi l’Italia pagava per interessi sul debito pubblico circa 80 miliardi di euro l’anno, circa il 10 per cento della spesa pubblica totale, mentre fino al 2006 il peso era significativamente più basso. Con l’attuale rialzo dei tassi pagati per finanziare il debito che viene a scadenza, la spesa pubblica nel 2012 dovrà riservare alle rendite finanziarie 95 miliardi circa, riducendo ulteriormente i margini per spese legate a beni e servizi. A questo si aggiunge l’onere dell’impegno accettato a Bruxelles di rimborsare un ventesimo del debito l’anno oltre la quota del 60 per cento del PIL. Questo rappresenta per l’Italia circa 50 miliardi di euro di spesa ulteriore.

E i nostri conti?

Nel 2012 i fondi sottratti al bilancio dello Stato rispetto al 2011 per effetto del peso della finanza e delle politiche di austerità sono di oltre 80 miliardi: un decimo dell’intera spesa pubblica. Si può stimare che metà del rimborso del debito vada a creditori stranieri, sottraendo risorse al Paese: la caduta del PIL a questo punto sarebbe dell’ordine del 6 per cento, senza calcolare gli effetti indiretti del calo di redditi, spesa pubblica e consumi. Blandire la finanza internazionale e seguire la linea tedesca dell’austerità non può far quadrare i conti pubblici.

Cosa dobbiamo aspettarci e come agire

 

Come vede il futuro economico delle altre nazioni europee?

La questione del debito pesa sull’Italia come su altri Paesi europei, ma può essere affrontata soltanto con un cambio di direzione delle politiche europee, un cambio che preveda ridimensionamento della speculazione, garanzia collettiva del debito pubblico, interventi della Banca centrale europea che assicurino un ritorno ai livelli pre-crisi dei tassi d’interesse che l’Italia deve pagare, cioè vicini a quelli dei titoli tedeschi.

È questo il test decisivo per il successo dell’azione del governo Monti. C’è poi il problema dei conti con l’estero. Poiché l’Italia importa sempre più di quanto esporta, il deficit commerciale si va allargando e viene finanziato da crescenti afflussi di capitali. Buona parte finisce in titoli di Stato: circa metà del debito pubblico è finanziato dai risparmi interni e metà viene da banche estere, fondi pensione e d’investimento, operatori stranieri che si spostano da un mercato all’altro con l’obiettivo di massimizzare i rendimenti ed evitare i rischi di insolvenza: un ulteriore elemento di fragilità della situazione italiana.

Ad alimentare gli squilibri sono soprattutto il grande surplus commerciale della Germania e gli spostamenti di capitali speculativi, ma di questo problema il governo Monti non parla, l’Europa non discute, la Germania non vuol sentir parlare.

Cosa pensa di un eventuale ritorno alle monete nazionali?

La soluzione dovrebbe essere un cambiamento profondo della politica europea, con regole che permettano una crescita sostenibile e tolgano spazio alla speculazione. Smontare l’euro e tornare a monete nazionali non è una prospettiva semplice e potrebbe avere costi economici e sociali molto pesanti. È uno scenario che emergerebbe solo come risultato di un disastro economico particolarmente grave.

Nel futuro ci aspetta una nuova fase di crescita o una fase di decrescita, più o meno felice?

Siamo in una grave recessione che, se le attuali politiche non cambiano, potrebbe diventare una grande depressione, come negli anni Trenta. E questa mancanza di crescita non è per nulla felice per chi perde il lavoro e vede ridursi redditi e consumi.

Questa è una crisi che riguarda un intero modello di sviluppo, un modello fondato su enormi disuguaglianze, consumi opulenti, distruzione dell’ambiente e delle risorse naturali, alienazione diffusa. Non si può pensare di uscire da tutto questo col tipo di sviluppo che abbiamo portato avanti finora. Deve cambiare la qualità di quello che si produce e il modo in cui lo si produce, recependo gli stimoli venuti dai critici della crescita a tutti i costi.

Image by © Gary Waters/Ikon Images/Corbis

 

 

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