Nel mondo scientifico ci sarebbe un gran bisogno dell'eccellenza femminile. E invece troppe scienziate sono costrette a lasciare il lavoro perchè obbligate a scegliere tra carriera e figli. Parola di un'esperta in politiche comunitarie che lancia l'allarme: le cose vanno male, in tema di pari opportunità, anche nella UE. E i rischi possono essere gravi per tutti
Mara Gualandi è un’esperta nel settore delle politiche comunitarie. In particolare si occupa di aspetti relativi alla ricerca scientifica in Italia e nell’Unione europea. E grazie alla sua esperienza si è fatta un’idea precisa sul ruolo delle donne in questo campo che per definizione rappresenta l’innovazione e il futuro. A Bruxelles il problema della discriminazione femminile nel settore della ricerca & sviluppo è sicuramente sentito. La Commissione si sta attivando perché possa cambiare qualcosa nelle strategie e soprattutto nella mentalità di aziende, enti e università che operano nell’area scientifica, promuovendo alcune linee guida per il cambiamento. In Italia le cose vanno un po’ a rilento anche se, proprio negli ultimi mesi, le donne hanno dimostrato che è necessario un cambiamento culturale profondo nel nostro Paese che possa garantire parità di condizioni tra uomini e donne, a partire dal mondo del lavoro.
Qual è la situazione occupazionale delle donne nel settore scientifico e della ricerca?
Spiace dirlo ma, anche nell’ambito della ricerca & sviluppo, le donne sono discriminate come in altri settori dell’economia. La crescita di carriera non è agevole e comunque è difficile trovare donne ad alti livelli di responsabilità negli enti di ricerca, nelle università e nelle aziende che si occupano di ricerca e innovazione tecnologica. Le statistiche di fonte europea ci dicono che in Italia le donne rappresentano il 60 percento dei laureati in discipline scientifiche, ingegneristiche e tecnologiche, per poi passare al 44 quando iniziano a fare ricerca e arrivare a solo al 18 nei livelli professionali più elevati. E questo nonostante, negli ultimi anni, il tasso di crescita delle ricercatrici donne sia stato più del doppio (10 percento) rispetto a quello degli uomini (4,2 percento), soprattutto negli enti pubblici rispetto ai privati. Ma l’abbandono delle carriere e il vuoto di presenze femminili ai vertici della ricerca italiana è una realtà. In Europa le cose vanno un po’ meglio, ma il problema esiste ovunque.
Perché le donne non sono presenti in modo significativo nell’area scientifica?
Un po’ perché neppure iniziano la carriera della ricerca scientifica anche se sono state studentesse brillanti. La maggioranza abbandona per motivi familiari legati al desiderio di maternità e alla cura dei figli. Insomma c’è un conflitto di ruoli, non si riesce a conciliare la vita professionale con quella familiare, un aspetto dovuto a condizionamenti culturali che, come sappiamo, si ripercuote sul mondo del lavoro in modo trasversale. Ci sono inoltre forme di discriminazione nei confronti delle donne, e in questo caso delle ricercatrici, che segnano una differenza tra le condizioni di lavoro di uomini e donne: queste ultime infatti non hanno i giusti riconoscimenti e avanzamenti di carriera. Un abbandono di persone giovani, anche se con esperienza e capacità, che segna una sconfitta per l’intero sistema economico e si verifica proprio in un settore a vocazione fortemente innovativa.
L’UE ha pensato a qualche strategia per contrastare questo fenomeno?
L’Unione Europea è giustamente preoccupata, perché pensa che la scienza di tutto il continente possa restare indietro mentre avrebbe invece un gran bisogno di donne e di giovani. Per questo ha elaborato diversi piani e progetti che vanno in questa direzione e tra questi mi piace ricordare in particolare il progetto Gendera, ossia Gender Debate in European Research Area (www.gendera.eu), finanziato nel 7°Programma Quadro di Ricerca. Gendera contiene indicazioni e misure che, se recepite e applicate, potrebbero favorire le condizioni per l’inserimento e il mantenimento delle presenze femminili nel settore della ricerca. Ciò che si vorrebbe fare è soprattutto incidere su possibili leve che mettano in moto un cambiamento di mentalità e di approccio culturale al problema. Inoltre l’UE, per ciascun Paese, si è preoccupata di individuare politiche che hanno agito positivamente e anche casi che hanno consentito alle donne di arrivare ad occupare posti di responsabilità e di rilievo nel settore. Questo per tracciare un percorso concreto che possa costituire un esempio da imitare.
Quale potrebbe essere il valore aggiunto, nel mondo del lavoro, di una maggior presenza femminile?
La risposta l’ha già individuata nel settembre 2010 la Commissione esecutiva che ha proposto il documento Strategia per la parità tra donne e uomini (2010-2015). Lì si afferma che “per realizzare gli obiettivi della strategia Europa 2020, cioè una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, è imperativo fare appello più largamente e più efficacemente al potenziale delle donne e alla loro riserva di talenti“. E ancora dice al Parlamento europeo che “la parità di genere può divenire realtà solo se esiste un impegno forte e chiaro al massimo livello politico, sia delle istituzioni europee che dei governi e delle parti sociali… È importante che la parità tra donne e uomini occupi un posto centrale e ben visibile nelle politiche e nella pianificazione e che l’integrazione della dimensione di genere diventi uno strumento più efficace nell’elaborazione delle politiche”. E se è vero che la UE è sincera nelle sue affermazioni, è altrettanto vero che non ci saranno miglioramenti in assenza di una politica forte dei Paesi membri per la parità tra uomini e donne in tutti gli ambiti: sociale, economico, istituzionale.
Nel nostro paese c’è sufficiente sensibilità politica nei confronti delle donne nel mondo scientifico?
Rispondo con un dato che fa sicuramente pensare. L’ha presentato nel maggio scorso una demografa del Cnr, Rossella Palomba, che ha stimato quanto tempo le donne italiane occupate nel settore della ricerca accademica dovrebbero aspettare prima di raggiungere il livello degli uomini: il risultato è 63 anni ma, si badi bene, ipotizzando che ad essere promosse siano solo e soltanto le donne Nel caso invece che gli uomini continuassero a fare carriera, ma con il tasso di crescita che oggi detengono le donne, ebbene la parità sarebbe raggiunta nel 2601. Si tratta ovviamente di simulazioni, ma che la dicono lunga sul livello di uguaglianza.
Ma qualcosa è stato fatto negli ultimi anni per cambiare il modello maschile prevalente anche in questo settore?
Ci sono alcuni esempi positivi. Un primo fa riferimento ai Comitati di Pari Opportunità (CPO) che sono stati istituiti nelle università italiane. Anche l’Enea ha fondato un CPO molto attivo. Sempre nel settore pubblico, da segnalare l’iniziativa della Provincia di Milano che, nel 2010, ha assegnato dodici borse di studio di 10.000 euro ciascuna riservate a donne nel settore dell’innovazione tecnologica, biotecnologie ed energia.. Anche il Cnr ha istituito un gruppo di lavoro per sostenere le ricercatrici; le iniziative sono molteplici e di “casi di successo” se ne possono citare parecchi altri.
Ci può dire qualcosa in più su come si è mossa Italia per adattarsi alle indicazioni della Commissione europea?
Va detto che il nostro Paese è parte attiva in diversi progetti europei e in particolare anche l’Apre (Agenzia per la Promozione della ricerca europea: www.apre.it) partecipa a progetti comunitari , come appunto Gendera iniziato nel 2010 , e che ha visto coinvolti nove partner di altri paesi europei. A livello nazionale, abbiamo lavorato con Confindustria, l’Università di Trieste, Enea, Cnr e Intesa Sanpaolo, per ridefinire un panel di politiche concrete per l’uguaglianza occupazionale nella ricerca italiana. Si tratta di sette gruppi di azioni. Il primo fa riferimento alla Gestione del tempo e visibilità per ridefinire i sistemi di valutazione sulla base dei risultati e delle pubblicazioni di studi e ricerche. Il sostegno alle attività di cura, il che vuol dire incentivazione a forme alternative di occupazione, come il telelavoro, e attività di tutoraggio per le donne che si devono assentare per l’assistenza ai familiari. C’è poi la Programmazione della “doppia” carriera per il partner (di solito la donna) che deve seguire il compagno magari all’estero per lunghi periodi. Ovviamente il Sostegno alla maternità, attraverso convenzioni con asili nido e asili aziendali, la possibilità di orari flessibili e spazi per l’allattamento. La Programmazione della carriera vuol creare bacini di candidature femminili e percorsi di mentoring per la crescita professionale della donna. Con il titolo Ruoli e stereotipi si vogliono definire gruppi di lavoro di donne e uomini insieme, per individuare e sensibilizzare interventi sullo stile di leadership. Infine l’area delle azioni che riguardano Promozione e progressi per l’introduzione di criteri che valorizzino le caratteristiche del lavoro al femminile.
Il nostro Paese ha fatto dei passi concreti?
È dello scorso 28 giugno l’approvazione in via definitiva da parte della Camera del decreto legislativo 5/2010, in cui è previsto che i Consigli di amministrazione delle aziende quotate in Borsa o a partecipazione pubblica dovranno essere composti da un quinto di donne a partire dal 2012 e da un terzo dal 2015. Comunque la si pensi, è un buon risultato per l’Italia, e non solo perché c’è d’augurarsi che ci possa essere un effetto concreto e positivo riguardo una maggiore presenza delle donne ai vertici delle società. Ma soprattutto ci si augura che questa decisione rappresenti anche un segnale positivo di maggiore attenzione delle istituzioni nazionali rispetto al tema delle pari opportunità. Sono sempre i numeri che ci dicono come è collocato il nostro Paese sotto questo aspetto: la percentuale di partecipazione “rosa” ai Cda delle società oggi è del 4 percento contro una media europea dell’11 mentre il tasso norvegese è addirittura del 41 percento. E un altro dato, questa volta tutto nostro, ci dice che le donne guadagnano mediamente il 15 percento in meno degli uomini. Un dato “inquietante” che si commenta da solo.
Lei pensa che le “quote rosa” potrebbero migliorare questa situazione di palese ingiustizia?
Penso sia auspicabile che le quote rosa rappresentino una soluzione solo temporanea. Certo possono essere utili per dare una scossa al sistema, ma pensare di applicarle sempre e comunque mi sembra riduttivo e ghettizzante per le donne stesse, considerate in questo caso quasi una sorta di “specie” a parte, da proteggere. Nonostante tutte queste oggettive disparità mi piace ricordare che nel 2009 sono state proprio due donne a vincere il Nobel per la medicina: Elizabeth H. Blackburn e Carol W. Greider, impegnate da anni in un campo di ricerca tra i più promettenti, quello sull’invecchiamento cellulare. Per fortuna l’eccellenza premia, indipendentemente dal genere di appartenenza.