Negli ultimi vent'anni il nostro Paese ha perso, in termini di brevetti prodotti dai ricercatori italiani all'estero, oltre quattro miliardi di euro. Il presidente della Fondazione Lilly, Concetto Vasta, lancia l'allarme sull'esodo dei nostri scienziati e spiega cosa fare per incentivarli a rimanere
Quello dei “cervelli in fuga”, come comunemente è definito l’esodo di ricercatori altamente specializzati che vanno a lavorare all’estero, è un fenomeno, per ora, senza inversione di tendenza. Qualcuno è riuscito a quantificare quanto ci costa: calcolato su un periodo che copre gli ultimi venti anni, ogni ricercatore che è andato a lavorare fuori dei confini nazionali, si stima valga 148 milioni di euro. Il calcolo è presto fatto. Sono stati 155 i brevetti prodotti da parte dei venti migliori ricercatori italiani all’estero, e 301 i brevetti ai quali ricercatori italiani hanno partecipato in modo significativo negli ultimi vent’anni: in termini di reddito, questa montagna di brevetti rappresenta per noi di una perdita secca di quasi 4 miliardi di euro. Il merito di essere riuscito a quantificare i costi del fenomeno è della Fondazione Lilly (www.fondazionelilly.it) l’associazione onlus impegnata nell’incentivare la ricerca scientifica. Insieme all’I-Com (Istituto per la Competitività) ha svolto l’indagine che ha posto la questione in termini economici per stimolare il più possibile la reazione del sistema politico a favore di un sostegno che non sia fatto solo di belle parole. Per approfondire il tema abbiamo sentito cosa ne pensa il direttore generale della Fondazione Lilly, Concetto Vasta, che racconta anche le iniziative concrete a sostegno di quei giovani che intendono restare a fare ricerca scientifica in Italia.
Dalla vostra indagine emerge che il 35 percento dei nostri 500 migliori cervelli va all’estero e, se consideriamo i primi 100, la percentuale arriva alla metà. Di fronte a questi dati, quali sono le sue considerazioni?
C’è ormai una diffusa consapevolezza che i nostri giovani migliori vanno in altri Paesi per tentare di esprimere al meglio le loro capacità, perché in Italia questo non è possibile. Ma il fenomeno è lontano dall’essere ridimensionato, anzi sembra in incremento. Siamo allarmati di fronte a questa situazione, perché nessuno in modo concreto prova a dare delle soluzioni. La Fondazione Lilly, con le sue iniziative che sostengono giovani ricercatori a svolgere il proprio lavoro in Italia, vuole fare un’azione di stimolo, quasi una provocazione al sistema politico, perché noi da soli non possiamo certo avere la presunzione di risolvere il problema.
Quali sono le linee guida delle vostre iniziative?
Sono tre le indicazioni che vogliamo dare con la nostra attività. Per prima cosa, se vogliamo trattenere nel nostro paese i migliori ricercatori, dobbiamo mettere al centro il merito, a cominciare dall’Università. Il secondo punto riguarda i mezzi economici messi in campo. Quello che si fa in Italia è dare borse di studio, magari anche modeste, ma senza pensare al supporto in termini di strutture e dei materiali per la ricerca. E così non si mettono questi giovani nelle condizioni di poter lavorare. Dobbiamo dimostrare di essere veramente disponibili a investire nella ricerca. Terzo punto riguarda l’organizzazione. La nostra ricerca è molto compressa, si parla dell’1 percento circa del Pil contro Paesi, come quelli Scandinavi, che arrivano anche al 4 percento . Ma quelle poche risorse le disperdiamo in mille rivoli, senza capacità di mettere a sistema la nostra attività di ricerca.
Altrove si taglia tutto, ma non la ricerca e l’istruzione. Perché in Italia questi settori non sono valorizzati?
Pur essendoci la percezione che il problema è serio, di fatto si guarda all’immediato, abbiamo una scarsa propensione a programmare nel lungo periodo. A ciò si aggiunge la nostra disorganizzazione, di cui dicevo prima. Mentre la ricerca ha bisogno di tempi lunghi e di un riferimento organizzato, le università sono lasciate a lavorare da sole, senza sistematicità e coordinamento. E nonostante che da noi ci sia il più basso numero di ricercatori in Europa, la produttività della ricerca scientifica è tra le più alte (2,28 percento calcolato sul numero di pubblicazioni totali), dopo Gran Bretagna (3,27) e Canada (2,28). Quindi, la qualità del “materiale umano” è molto elevata. Il problema non è tanto andare a fare un’esperienza all’estero, che è giusto fare in termini di preparazione e di costruzione della propria professionalità, quanto il fatto che un giovane ricercatore non riesca poi a tornare a lavorare nel nostro paese. Per non parlare dei ricercatori stranieri che potrebbero venire a fare un’esperienza nei centri di ricerca italiani che al momento risultano scarsamente attrattivi.
Nonostante tutto, lei è ottimista?
C’è molto da fare, ma l’ottimismo mi viene soprattutto dalla reazione di tanti giovani che sono entrati in contatto con noi nel corso di questi ultimi anni, soprattutto nell’assegnazione delle borse di studio. La qualità dei progetti, giudicata da una Commissione internazionale composta dai più prestigiosi centri di ricerca all’estero, è tale che gli stessi centri parte della Commissione hanno voluto esser messi in contatto direttamente con i giovani ricercatori. E il contatto ha poi avuto un seguito concreto. Il secondo elemento di ottimismo arriva dalla constatazione che quando si propongono regole precise c’è molta disponibilità ad accettarle. In occasione del primo bando, che abbiamo fatto tre anni fa, molti erano perplessi sui criteri di assegnazione: c’erano pregiudizi sul reale riconoscimento della meritocrazia. In seguito, capite le regole e i criteri che avevamo introdotto, abbiamo avuto tantissime adesioni e ora partecipano ricercatori provenienti da quasi tutte le sedi universitarie del paese. Insomma, di fronte a iniziative che premiano il merito, la reazione è entusiasta. Infine c’è un terzo motivo che mi fa dire che qualcosa, anche nell’ambito più istituzionale, si sta muovendo.
A che cosa fa riferimento?
Si tratta di un’iniziativa che stiamo portando avanti con l’Università La Sapienza di Roma e che è una novità nell’ambito della ricerca scientifica. Quello a cui stiamo lavorando è un nuovo corso di alta formazione in “Innovazione e Valorizzazione della Ricerca”, chiamato RED (http://www.uniroma1.it/ didattica/ corsiformazione/ 25867-innovazione-e-valorizzazione-della-ricerca). Questa prima edizione del corso è dedicata alla ricerca medica e per questo la nostra Fondazione ha deciso di finanziarla al 100 percento. L’idea è però di aprirla, nelle prossime edizioni, a fisica, ingegneria e agli altri ambiti della ricerca scientifica. Lo scopo è di valorizzare la ricerca in Italia da un punto di vista particolare: formare venti ricercatori che diventeranno, all’interno delle proprie strutture di lavoro, dei manager in grado di organizzare i team di ricerca a essere il più efficienti possibile. Per la prima volta parte un corso per migliorare il livello di imprenditorialità della nostra ricerca rivolto a formare giovani che vorrebbero confrontarsi con il mercato per valutare se c’è qualcosa di innovativo e di economicamente produttivo nelle loro scoperte. Perché in Italia i ricercatori sono stimolati a pubblicare il maggior numero di articoli su riviste di prestigio, mentre all’estero tutto gira attorno ai brevetti. Così accade che le idee dei nostri scienziati di talento siano sfruttate da altri ricercatori che le trasformano in progetti, in qualcosa di tangibile, utile per tutti i cittadini.
La Fondazione Lilly è comunque attiva anche su altre iniziative concrete a favore dei ricercatori. Ce ne può parlare?
Dal 2009 abbiamo deciso di assegnare una borsa di studio quadriennale di un ammontare pari a 360 mila euro, di cui 180mila come retribuzione per il ricercatore vincitore, mentre l’altra metà per consentire di fare la ricerca nel modo migliore, per recarsi in laboratori all’estero se la ricerca lo esige, per acquistare i materiali e così via. Vogliamo creare le condizioni per consentire a questi giovani che hanno presentato il progetto di ricerca giudicato migliore, di lavorare in modo ottimale. Se vuoi fare la ricerca bisogna investire fino in fondo e con convinzione, questo è il nostro messaggio.
Le vincitrici delle vostre borse di studio sono state finora tutte donne. Un caso?
Non un caso, ma un indice di merito. Perché l’assegnazione avviene su un giudizio basato unicamente sulla meritocrazia. Non entravano altri parametri e questo ha permesso di far emergere i veri valori. Le donne sono risultate le migliori in tutti e tre gli anni in cui abbiamo indetto il premio. È un risultato che mi fa ovviamente piacere. Si tratta di tre ricercatrici originarie del Sud, due delle quali lavorano però in ospedali dell’Italia settentrionale. Un altro elemento di riflessione è proprio quello della mobilità interna dei ricercatori.
L’indagine che avete presentato con un’audizione al Senato e le vostre iniziative di finanziamento alla ricerca, vi hanno consentito di avere riscontri dalle istituzioni?
La cosa che ha avuto il valore più significativo per noi è la targa di riconoscimento per la nostra attività che ci ha assegnato il presidente Napolitano. Un segno tangibile di sensibilità che ci ha aiutato con le amministrazioni universitarie a risolvere le difficoltà burocratiche che, sembra incredibile, avevamo incontrato nell’erogazione delle borse di studio. Con l’aumento di attenzione da parte delle istituzioni e della politica, seguita al riconoscimento ricevuto, siamo riusciti a superare i problemi.
Ma qual è la differenza tra la nostra ricerca e i sistemi virtuosi che funzionano meglio?
Sul piano teorico niente. Ma voglio sottolineare un fatto che considero importante e cioè la collaborazione tra pubblico e privato, che all’estero è una realtà scontata mentre da noi per nulla. L’Università si considera un mondo un po’ chiuso che per remore culturali non deve contaminarsi con il mondo produttivo: la ricerca non deve generare profitto, deve restare pura. Io la penso diversamente perché per me lo scopo della ricerca è diventare un bene fruibile per tutti, si deve trasformare in qualcosa che sia utile per la salute dei cittadini. La collaborazione tra pubblico e privato dovrebbe essere un aspetto fondamentale all’interno degli istituti di ricerca e dovrebbe diventare uno stimolo anche per il mondo industriale. Un limite è indubbiamente costituito dalle dimensioni medio-piccole della nostra industria che non può accollarsi l’onere di investimenti così pesanti. Perché se è vero che i finanziamenti pubblici alla ricerca sono pochi, è anche vero è anche vero che la quota dei privati è in confronto più ridotta rispetto ad altri Paesi.
Non c’è anche un problema di cultura scientifica che da noi non è così valorizzata come in altri Paesi?
Sicuramente. Infatti è sul piano culturale che dovrebbe verificarsi un cambiamento profondo. Penso a come viene mal giudicato da noi un giovane che dichiari di fare il ricercatore, a cominciare dal suo stipendio. Negli Stati Uniti c’è una differenza abissale rispetto a questa nostra convinzione: un giovane che fa ricerca è molto valorizzato e considerato, il suo è un ruolo di prestigio all’interno della società. Si tratta di una questione culturale: in Italia il ricercatore è sottostimato, all’estero è considerato un professionista, perché è proprio il valore che si attribuisce al suo lavoro che è diverso.