Alessandro Rimassa, direttore dell'Istituto Europeo di Design a Milano, racconta come si combatte la disoccupazione under trenta
Nel 2006 ha scritto Generazione Mille euro, il libro cult, da cui è stato tratto anche un omonimo film, che è diventato un autentico movimento di protesta giovanile contro precarietà e regole del mercato del lavoro poco favorevoli alle nuove generazioni. Ma Alessandro Rimassa, classe 1975, è anche direttore del Centro Ricerche dell’Istituto Europeo di Design di Milano, dove si mettono a punto programmi di ricerca e formazione per offrire nuove opportunità ai giovani e spiegare alle aziende italiane come innovare. Da questo osservatorio privilegiato oggi che la disoccupazione giovanile ha superato (secondo gli ultimi dati Istat) il 31 percento, ci aiuta a riflettere su quello che agli under 30 manca davvero e spiega perché, secondo lui, per uscire dalla crisi bisogna puntare a risanare l’Italia, con regole chiare per tutti, valorizzare le competenze e i saperi, promuovendone lo scambio, usare le reti (a partire dal Web) per costruire relazioni e investire sull’innovazione.
Secondo lei, si sta facendo abbastanza in Italia per i giovani?
Si sta facendo qualcosa ma non è ancora abbastanza. Mi auguro che sul mercato del lavoro si agisca in maniera dirompente, eliminando le folli differenze tra lavoratori garantiti e precari, inserendo un unico contratto di lavoro basato su merito e produttività per tutti.
Certo, una riforma del genere comporterebbe grandi sacrifici per chi il lavoro ce l’ha da molto e oggi vive con tante garanzie. Ma è necessario, perché se non si realizza davvero un’uguaglianza totale i giovani e coloro che devono rientrare nel mondo del lavoro continueranno a essere i diversi, diciamo pure gli “sfigati” di cui parla qualcuno: una male che riguarda non solo loro ma tutta l’Italia perché continuerà a generare instabilità.
Del grande dibattito sull’articolo 18 cosa pensa?
Il dibattito sull’articolo 18 è sterile per tutti i giovani. Dal 2005 in avanti chi entra nel mondo del lavoro lo fa principalmente con contratti atipici, quindi cosa sia l’articolo 18 oggi non lo sa il 70 per cento dei nuovi entrati nel mercato del lavoro.
Ma chi entra oggi rappresenta il futuro del lavoro e del Paese, quindi di che cosa stiamo parlando? Proteggiamo il vecchio senza puntare sul nuovo, così facendo il dibattito è fine a se stesso e non guarda al nostro domani. Serve, dunque, una riforma complessiva perché i giovani, oltre che il futuro, sono anche il presente, il centro del Paese.
Oltre al lavoro di cosa pensa abbiamo più bisogno i giovani di oggi?
I giovani, e non solo loro, hanno bisogno di una visione del domani. Cosa vogliamo fare di questo Paese? Che regole vogliamo darci? Pensiamo a un futuro industriale o artigianale? Nelle grandi città o nei piccoli paesi? Saremo ancora un’avanguardia culturale o no? I giovani necessitano di una guida, di un immaginario, di avere le chiavi di lettura per interpretare il proprio ruolo nella società. E necessario che qualcuno dia loro delle possibilità. Oggi, invece, sono proprio i giovani a pagare il debito e le pensioni senza avere nulla in cambio.
Che differenze ci sono fra i giovani italiani e gli Indignatos del resto d’Europa?
In Italia c’è maggiore individualismo e questo ha impedito che i giovani, prima della Generazione Mille Euro e ora degli Indignati, si unissero davvero e scendessero in piazza con decisione e piglio rivoluzionario. Dovremmo essere meno egoisti e più consci dei nostri interessi.
Possiamo dare qualche consiglio a chi vuole reagire alla crisi e ricollocarsi sul mercato?
Consiglio di utilizzare il web, per esempio Linkedin, per costruire reti di relazioni e capire come si sta muovendo il mercato. Poi è importante fare, sempre e comunque, non attendere il lavoro perfetto ma adattarsi anche a professioni meno nobili, sporcarsi le mani, agire insomma.
Meglio tre mesi in un fast food in attesa di un posto nel marketing piuttosto che tre mesi sul divano: serve sia per dimostrare al futuro datore di lavoro che si è persone pronte a mettersi in gioco sia per non incorrere nella disillusione o, peggio, nella depressione.
Generazione S, che lei conduce, racconta storie di giovani che hanno fatto impresa smettendo di aspettare l’assunzione. Ci racconta di cosa si tratta?
Oggi ormai il lavoro non ti cade più addosso, va creato. Bisogna saper leggere il mercato in evoluzione, trovare nuove strade e tracciare percorsi fuori dal comune. I protagonisti di Generazione S sono i supereroi del contemporaneo, innamorati dell’Italia, convinti che il nostro sistema economico possa tornare a girare e che il genio italiano sia ancora tale.
Quegli under 35 di cui tutte le altre Tv e i grandi giornali non parlano, quelli che riescono a fare impresa e a inventarsi nuove professioni: designer, giornalisti, blogger, scrittori, ricercatori, piccoli imprenditori, inventori, creativi che rimboccandosi le maniche hanno creano imprese con le quali riescono ad affrontare brillantemente la crisi senza piegarsi a un sistema Paese rigido che spesso trancia le ali anche di chi ha idee e voglia di fare.
Giovani, insomma, che credono in questo Paese, non lo abbandonano e si impegnano in prima persona per innovarlo e rilanciarne l’economia partendo dal basso. Generazione S si occupa di questi giovani anche come risposta a chi dice che l’Italia è solo disoccupazione, spread, fuga di cervelli e crisi economica.
Tutte parole terribilmente reali, ma per risvegliare il Paese c’è bisogno di raccontare anche le storie di chi, seppur tra mille difficoltà, riesce a trovare nuovi percorsi nel mondo del lavoro.
Qual è il più grande problema dell’Italia che impedisce al nostro Paese di crescere e di dare ai giovani la possibilità di esprimersi veramente?
La mancanza di regole certe e la voglia di rispettarle. Una generale e diffusa illegalità spicciola mista a un certo menefreghismo. C’è bisogno di più regole e più equità.
Io sono contro la fuga di cervelli, ma non sono contro gli italiani che vanno all’estero. Vorrei costruire un sistema di circolazione dei cervelli, dove gli italiani bravi vanno via, ma qui da noi arrivano i bravi francesi, spagnoli, tedeschi.
Dobbiamo promuovere la circolazione del sapere e delle competenze, ma per farlo serve rilanciare il Paese e renderlo più appetibile agli occhi degli stranieri.
E in definitiva quale può essere la via d’uscita?
Serietà, rigore, innovazione. E protagonismo delle nuove generazioni. Se diamo spazio ai giovani tanto per dar loro un contentino, e tenerli buoni ci facciamo del male. Se, invece, puntiamo sulla progettazione partecipata, condivisa, del nostro futuro, allora sì che possiamo svoltare.
Condividere, coinvolgere, agire in comunità secondo regole chiare: la ricetta non è complessa, ci vuole però coraggio per metterla in pratica. E poi penso che il nostro futuro sia artigianale. Dobbiamo tornare alle nostre origini e mettere in risalto le caratteristiche della nostra cultura, del nostro Paese, dei nostri cervelli.