Wise Society : Alessandro Bergamini: “La fotografia ci educa alla bellezza e alla diversità”
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Alessandro Bergamini: “La fotografia ci educa alla bellezza e alla diversità”

di Vincenzo Petraglia
5 Maggio 2024

Incontro con il fotografo pluripremiato a livello internazionale impegnato in progetti dal forte valore sociale, in grado come pochi di raccontare, attraverso il suo obiettivo, i popoli che vivono negli angoli più remoti della Terra, sempre più minacciati dai cambiamenti climatici e dall'avanzare della modernità. Alcune delle sue opere in mostra a Milano fino al 15 giugno

Le sue fotografie si sono guadagnate svariati premi e riconoscimenti a livello internazionale. Scatti che, come pochi in circolazione, riescono a catturare la bellezza, l’unicità, l’essenza di popoli e luoghi remoti, sempre più minacciati dalla modernità e dagli effetti dei cambiamenti climatici. Alessandro Bergamini, classe 1986 di Finale Emilia, è uno dei fotografi italiani emergenti più interessanti del panorama internazionale, con alle spalle già diverse personali e pubblicazioni e con in bacheca prestigiosi award.

Fra tutti, il Travel Photographer of the Year e l’International Photography Awards, nei quali si è classificato al primo posto nel 2021. E, ancora, fra gli altri, svariati riconoscimenti di rango, quali il secondo posto sia al concorso National Geographic Italia 2015 che al Monochrome Photography Awards 2020, e il terzo posto al World Water Day Photo Contest 2023.

Alessandro Bergamini

Alessandro Bergamini incontra col suo obiettivo alcuni dei popoli più remoti della Terra, sempre più minacciati dalla globalizzazione. I suoi lavori si sono guadagnati negli anni svariati premi e riconoscimenti sia in Italia che all’estero.

Un artista che ha molto da dire attraverso le sue opere, capaci di offrire una visione artistica del mondo molto particolare e riconoscibile, frutto anche di progetti con importanti risvolti sociali, oltre che puramente fotografici.

Come l’ultimo in ordine di tempo che lo vede coinvolto, “Nothing like water”, attraverso il quale ha incontrato le popolazioni ancestrali della remota isola di Sumba, autentico paradiso naturalistico e culturale dell’Indonesia, ancora quasi del tutto sconosciuto al turismo, con tradizioni, usi e costumi di grande fascino e ancora gelosamente custoditi dalle comunità locali.

Un progetto che ha dato vita a una splendida mostra fotografica con 30 magnifici scatti che sarà possibile ammirare gratuitamente a Milano, in Piazza Castello, Via Luca Beltrami, per un mese dal 15 maggio al 15 giugno

Parte anche del prestigioso Team di Grandi Viaggi Fotografici e relatore Tedx Talk su fotografia e diversità, tema a cui è particolarmente sensibile, Bergamini in questa intervista ci parla di terre segrete e culture di altri mondi e di come la fotografia possa diventare un potente strumento per abbattere barriere e costruire ponti fra popoli diversi, ma legati da un’unica matrice comune, quella di esseri umani.

Cos’è per lei la fotografia?

Un modo di esprimermi, per esprimere tutto quello che raccolgo durante i miei viaggi e che rimane nei miei occhi, nella mia mente e nel mio cuore. Anziché descriverlo solamente con le parole, cerco di fissarlo nelle immagini. Fotografo, quindi, ciò che più mi colpisce, con lo scopo di farlo poi vedere agli altri, condividerlo con loro, anche se non sono stati fisicamente nei luoghi lontani che ho la fortuna di visitare e non hanno conosciuto personalmente le persone che incontro viaggiando.

La fotografia diventa, dunque, uno strumento per incontrare nuove realtà e nuove culture. Può diventare uno strumento di pace secondo lei?

Assolutamente sì. Spesso ci si concentra soltanto sugli aspetti negativi, su una narrazione che documenta solo astio e guerre, racconta storie drammatiche, tristi, e questo può esacerbare ulteriormente le tensioni o mettere in conflitto alcune culture.

Questo tipo di fotografia va benissimo per carità, in quanto può sensibilizzare verso certe tematiche e portare all’attenzione dell’opinione pubblica situazioni che non vanno bene, di sofferenza, dolore, ingiustizia, ma è altrettanto importante utilizzare la fotografia per far avvicinare le culture. Facendo vedere e conoscere la loro bellezza e le cose interessanti di cui sono portatrici, perché spesso è ciò che non conosciamo che ci fa paura, molta più paura rispetto a quello che conosciamo.

Uomini della Papua Nuova Guinea

Uno scatto di Bergamini realizzato in Papua Nuova Guinea. @Alessandro Bergamin

 

In questo senso la fotografia credo possa essere uno strumento incredibile di accoglienza della diversità, perché è dal momento che ci abituiamo a concepire che l’essere umano ha modi di vivere veramente molto variegati, che ridimensioniamo e relativizziamo anche il nostro punto di vista, quello della nostra cultura, e questo ci arricchisce, perché riusciamo ad ampliare la nostra visione e a metterci di più anche nei panni dell’altro, a non averne paura perché diverso da noi.

È da questo suo approccio alla fotografia che nasce il progetto Humanity?

Humanity è una raccolta di fotografie di popolazioni che vivono in maniera molto diversa dalla nostra, con usi e costumi molto variegati.

È un cantiere aperto e, dopo una prima pubblicazione già fatta, ne arriverà una seconda.

libro humanity, di alessandro bergamini

“Humanity” è uno dei progetti di Bergamini dedicato alla bellezza, nella diversità, che accomuna i diversi popoli del Pianeta.

Il suo scopo è costruire una sorta di atlante dell’umanità e mostrare la bellezza dei diversi popoli della Terra.

Far vedere cioè a tutti quanto siamo diversi, pur partendo tutti da una radice comune, parte, come siamo, di un’unica famiglia, quella umana. 

Spesso la diversità viene vista solamente come qualcosa che ci divide dagli altri. In realtà la diversità è una forma di ricchezza incredibile, un modo per guardare le cose e il mondo in modo diverso, senza dare per scontato nulla.

E, al di là di ogni diversità, gli uomini e le donne di tutto il pianeta condividono le medesime problematiche e necessità e i medesimi sentimenti.

Penso sinceramente che sia una cosa meravigliosa conoscere quanti diversi modi di vivere e rappresentarsi abbiano gli esseri umani…

Di recente ha realizzato un lavoro molto interessante sulle popolazioni della remota isola indonesiana di Sumba, dove esistono villaggi tradizionali in cui la cultura standardizzata della globalizzazione non è ancora riuscita a penetrare fino in fondo.

È un progetto a cui tengo molto da cui sono nati una mostra fotografica, un libro e una serie di video che raccontano quest’isola meravigliosa e i popoli che la abitano, con usi e costumi primordiali.

donna tessitrice

Sumba, Indonesia, progetto “Nothing like water”: grazie ai pozzi d’acqua potabile costruiti sull’isola da The Sumba Foundation, sostenuta anche dal brand italiano di outerwear e lifestyle 100% anibal-free Save The Duck, molte donne possono oggi dedicarsi ad attività di micro imprenditoria. @Alessandro Bergamini

Programmi sostenuti anche dal brand italiano Save The Duck, che attraverso il progetto “Nothing like water” è riuscito fino ad oggi a dare accesso all’acqua potabile a più di 4.200 persone in 37 villaggi.

copertina libro "Sumba. Nothing like water"

La copertina del libro frutto di un progetto dedicato all’importante tema dell’acqua.

Questo, oltre a garantire una qualità della vita migliore, consente per esempio ai bambini di poter andare con più facilità a scuola, non dovendo percorrere quotidianamente diversi chilometri per raggiungere le sorgenti naturali e trasportare poi l’acqua al villaggio.

Oppure alle donne di avere più tempo a disposizione per cimentarsi in piccole attività di micro imprenditoria.

Far conoscere questi luoghi e queste situazioni è importante. Personalmente lavorare con la consapevolezza di fare qualcosa di utile per migliorare la vita delle persone di Sumba è stata per me una cosa molto bella.

Proprio come scoprire un popolo dalla forte integrità culturale e prendere coscienza che un’isola, che ai nostri occhi può sembrare un paradiso, in realtà può trasformarsi, per le persone locali, a causa della mancanza di acqua potabile, in un posto molto difficile da vivere.

Che cos’è, invece, The Ice Way?

È uno degli ultimi progetti a cui ho lavorato dal quale è nato anche un libro, The Ice Way appunto, la via del ghiaccio. Un viaggio meraviglioso che ho fatto nell’estremo nord dell’India, nella parte indiana dell’Himalaya, in Ladakh precisamente, conosciuta anche come “Terra degli alti passi”, attraversando paesaggi incredibili come la Valle dello Zanskar per raggiungere il villaggio di Karsha e il suo monastero buddhista.

il libro the ice way di bergamini

“The Ice Way” è uno degli ultimi lavori portati a termine da Bergamini incentrato sui popoli himalayani del Ladakh, in India.

Luoghi dall’equilibrio fragilissimo, dove i pochissimi villaggi esistenti rischiano di scomparire a causa dei cambiamenti climatici.

Avendo fatto questo viaggio nel periodo invernale, ho avuto, infatti, modo di toccare con mano come l’unica via percorribile in inverno, rappresentata dal fiume Zanskar, che collega i villaggi alle valli, normalmente ghiacciato da dicembre a febbraio, sia sempre più precaria.

Il ghiaccio, infatti, tende a sciogliersi più facilmente e regge quindi sempre meno.

Questo significa che si riduce sempre di più la possibilità per gli abitanti dei villaggi di spostarsi verso valle e con essa anche la possibilità di sopravvivere durante il lungo inverno e di poter quindi continuare a vivere nei loro villaggi. 

Sempre in quota, ma questa volta in Perù, ha incontrato un altro popolo, assai diverso rispetto a quello del Ladakh…

Sì, quello dei Q’eros, un popolo che vive nella regione di Cuzco, sulle Ande, a quote proibitive intorno ai 4.500-5.000 metri.

La difficile scelta di vivere a queste quote viene tramandata dai loro antenati Incas: i Q’eros hanno grande rispetto delle loro tradizioni, la loro religione si basa su riti legati alla Madre Terra (Pachamama) e hanno un rapporto particolare con gli spiriti delle montagne e gli animali, in particolare lama e alpaca, da cui dipende la possibilità di sopravvivere in un ambiente così ostile.

Si tratta di un popolo veramente pacifico e di grandi valori spirituali che a livello professionale, insieme con la bellezza e la magnificenza dei paesaggi, rappresenta un vero paradiso per un fotografo: i Q’eros sono, infatti, sempre vestiti con abiti tradizionali che li fanno sembrare quasi un tutt’uno con la loro terra. Una gioia per gli occhi e per l’obiettivo!

donna q'eros - foto Alessandro Bergamini

Il popolo dei Q’eros vive in Perù, sulle Ande, a oltre 4.000 metri di altitudine. @Alessandro Bergamini

Fra tutti i popoli con cui è venuto in contatto, ce n’è uno che l’ha colpita più di altri?

Una delle popolazioni che mi ha colpito di più è quella dei Nenet, gli abitanti della penisola dello Jamal, nella Russia siberiana nordoccidentale, oltre il Circolo polare artico.

Si tratta di un popolo completamente nomade che durante l’inverno deve sopportare temperature che vanno anche a 50 gradi sotto zero.

I Nenet vengono chiamati anche “uomini renna”, in quanto vivono in simbiosi con questi animali, da cui dipende tutta la loro vita: possibilità di nutrirsi, coprirsi e difendersi dal gelo, spostarsi durante le migrazioni.

Copertina libro Q'eros di bergamini

La copertina del volume fotografico “Q’eros. Oltre le nuvole”, dedicato da Alessandro Bergamini ai discendenti degli Incas che vivono nella regione di Cuzco, sulle Ande peruviane.

Ciò che mi ha colpito di più di questo popolo dalla vita nomade al limite del sopportabile è il loro fortissimo senso della comunità e il modo in cui resistono alle terribili condizioni climatiche in cui hanno scelto di vivere.

Onestamente faccio molta fatica a capacitarmi di come si riesca e si voglia continuare a vivere in questa terra così inospitale, eppure è incredibile vedere quanto ci tengano alla loro cultura, che difendono e cercano di tramandare ad ogni costo, nonostante l’avanzare della modernità porti sempre più giovani a preferire condizioni di vita più facili e a cercare lavoro nelle città più vicine.

Qual è l’insegnamento più grande che le ha dato finora la fotografia?

Il rispetto e l’ascolto degli altri. La fotografia è un modo per entrare in connessione con tantissime culture e fotografare le persone ti costringe a entrare nel loro intimo, a interessartene, a interagire in maniera più profonda con chi ti sta di fronte, mettendo anche da parte le tue certezze ed entrando nei panni dell’altro, imparando così ad assumere anche punti di vista diversi dai tuoi, che è sempre e comunque un grande arricchimento.

Un consiglio che si sente di dare a chi vuole fare a livello professionale il mestiere del fotografo?

È una domanda che mi fanno spesso ed è sempre difficile dare una risposta, perché non c’è un percorso predefinito che può andare bene per tutti, sia che si voglia diventare un fotografo documentarista, sia che si desideri diventare un fotografo di viaggio. Di sicuro bisogna avere qualcosa da dire, che è la cosa più importante, e poi bisogna avere tanta voglia di mettersi in gioco e di investire su se stessi.

Può la fotografia contribuire a creare un mondo più “wise”, saggio?

Sarò forse troppo romantico, però io penso di sì. Credo sia arrivato il momento di diffondere sempre di più fra le persone, a partire dai bambini, la cultura del bello, documentando quindi, anche tramite la fotografia, delle cose positive, che, come tali, ci possano colpire in modo positivo.

Bisogna descrivere e dare sempre maggiore consapevolezza alle persone, attraverso il racconto, che nel mondo accadono cose meravigliose tutti i giorni, fatte da persone straordinarie.

È giusto che queste cose si conoscano in un mondo in cui, invece, l’informazione tende a mostrare, a porre l’accento quasi esclusivamente sul negativo. Questo, credo, possa certamente contribuire ad avviare un circolo virtuoso, creando un mondo un po’ migliore.

Vincenzo Petraglia

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