Wise Society : Carlo Mazzacurati: un provinciale anticonformista
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Carlo Mazzacurati: un provinciale anticonformista

di di Francesca Tozzi
30 Aprile 2010

Il regista padovano, autore di Vesna va veloce, Il toro e La giusta distanza, ci parla di come nascono i suoi film, del rapporto con la sua città, abbandonata per lavoro e poi riacciuffata "per far crescere i figli in un luogo piccolo", dei suoi progetti per il futuro. Dove c'è posto anche per il teatro

Giuseppe Battiston e Valentina Lodovini in "La giusta distanza", foto Lucia Baldini

Nel mondo di Carlo Mazzacurati i personaggi dialogano in modo profondo con il paesaggio; il territorio si fa personaggio da attraversare, da combattere, da scoprire in un’ansia personale di riscatto che non sembra avere mai fine. Dal Toro a Vesna va veloce, da La lingua del santo a La giusta distanza: nei film, donne e uomini messi in scena dal regista e sceneggiatore padovano – ingenui, coraggiosi, paradossali, fuori dagli schemi e spesso fuori legge – sono solo apparentemente dei perdenti. Lo stesso Carlo, figlio dell’ingegnere Mario Mazzacurati, non si è fatto certo scoraggiare dai primi insuccessi nonostante l’indole schiva e sensibile. Ha girato tredici film e un quattordicesimo, La passione, è in uscita. Ha vissuto fra Padova e Roma, ha raccontato la provincia del nord-est, tra semplicità e ipocrisie, ma anche le terre desolate dell’Est Europa, ha viaggiato nello spazio e nel tempo. Così i suoi film, grazie al suo sguardo anticonformista sul presente e alla sua propensione a cogliere spunti dalla realtà, in qualche modo riflettono il volto di un’Italia che è cambiata dagli anni 80 a oggi.

 

Il regista Carlo Mazzacurati, foto di Lucia BaldiniCome nascono i suoi film?

 

Davanti alle cose cerchi di trovare una storia che restituisca loro un senso di autenticità magari partendo da una sensazione o da una situazione di conflitto. Penso al mio primo lungometraggio Notte Italiana che è stato anche il primo a essere prodotto dalla Sacher Film di Nanni Moretti; l’ho diretto nel 1987 ma l’ho scritto prima, quando avevo 27 anni. È la storia di un avvocato di provincia che si trasferisce in un’area agricola sul delta del Po per stimare un terreno; non ha familiarità con la natura, conosce solo la sua casa, la sua città, non si sente a suo agio a contatto con quel luogo diverso che poi ha una sua identità, vive e respira.

 

L’attacco è emotivo ma poi la relazione che nasce fra l’uomo e il paesaggio va poi a incarnarsi nei personaggi. Lui, persona ingenua, per bene, meticolosa, di quel territorio scoprirà gli aspetti nascosti, la corruzione e i compromessi, ma anche un profondo cambiamento in corso: siamo alla fine degli anni 80, alla vigilia di Mani pulite. Vesna va veloce è nato invece da un senso di ribellione nei confronti di un fatto…

 

Un fatto realmente accaduto?

 

Si. Mi era capitato in mano un giornale con la notizia del ritrovamento del corpo di una ragazza, di cui hanno parlato anche in televisione. Ho riflettuto sulla sensazione di totale estraneità di chi riceve la comunicazione che un essere anonimo, una prostituta, è stato ammazzato: mi ha sconvolto il non riuscire a provare turbamento. Così ho sentito il bisogno di raccontare la storia di una singola persona e del suo percorso. Vesna fugge dall’Europa dell’Est su un pullman turistico e rimane in Italia per rifarsi una vita ma finisce per prostituirsi. Il paradosso è che l’unica persona che avrà un moto di pietas verso di lei è Antonio, un uomo semplice che, in modo ottuso ma sincero, rappresenta la speranza nel comunismo dalle cui macerie lei sta fuggendo. Sono i cortocircuiti strani degli incontri. Il loro sembra poter cambiare un destino già scritto ma lei sta correndo ancora, deve andare fino in fondo al suo viaggio.

Giovanni Capovilla in "La giusta distanza", foto Lucia Baldini

E qui il territorio che ruolo gioca?

 

Diciamo che questo film è anche il racconto di chi vede il nostro Paese da un’angolatura diversa rispetto a chi lo abita e quindi si sa muovere e sa leggere gli spazi che lo circondano. Vesna attraversa spazi e territori che non riconosce: la visualizzazione del suo punto di vista ti aiuta a vedere cose nuove anche in un territorio che ti è familiare.

 

Il toro è del 1994, quindi precede Vesna…

 

In un certo senso è un viaggio rovesciato rispetto a Vesna va veloce: i due protagonisti per vendere un toro da monta si addentrano proprio nei Paesi dell’Est Europa. Il film nasce da un lungo viaggio fatto l’anno prima, alla ricerca di luoghi e suggestioni, dal Veneto all’Ucraina passando per Slovenia, Croazia e Ungheria. Le persone conosciute, le cose successe sono state importanti per la dinamica della storia anche perché il film racconta due uomini e i loro incontri con persone semplici che parlano una lingua diversa ma con cui riescono a comunicare davvero. Alla fine però mi era rimasta la voglia di dare voce a persone che nel film erano solo abbozzate e così sono finite in quello successivo.

 

La lingua del santo, ambientato nella sua città natale…

 

Mi sono trasferito a Roma per lavoro e a 45 anni sono tornato a vivere a Padova per crescervi i miei figli: volevo che trascorressero l’infanzia in un posto piccolo, dove è facile muoversi, ma desideravo anche tornare in quello che è sempre stato il mio baricentro emotivo, un territorio che cambia come un teatro naturale. Quando sono rientrato ho avuto la sensazione che il modo di esistere di questo territorio e delle persone che lo abitavano fosse profondamente cambiato. È stato uno shock. Da questo spaesamento sono nati i ritratti dei tre scrittori veneti Rigoni Stern, Zanzotto e Meneghello: il cambiamento visto da persone con un lungo vissuto nel territorio stesso; è stato come chiedere consiglio agli anziani. Gli stessi protagonisti della Lingua del santo sono personaggi che non hanno saputo adeguarsi ai tempi, che, con il loro vivere ai margini, nulla hanno a che vedere con il Veneto arricchito. Per quanto folle e paradossale, però, la loro è una sfida vinta.

 

Un progetto per il futuro?

 

Vorrei tornare a fare film con strumenti più piccoli e una troupe ridotta, un po’ com’è stato l’Estate di Davide, costato un quinto perché pensato per la tv. A volte bisogna liberarsi dalle macchine complesse e laboriose per cogliere ciò che è nell’aria. E poi vorrei mettere in scena qualcosa a teatro. Fare un film è come lavorare con un incendio in corso e correre continuamente a tirare secchiate d’acqua sugli imprevisti; il teatro, invece, è stare a lungo immobili in un ambiente in penombra e ripetere: un’esperienza liberatoria.

 

Quali sono i valori che ha ereditato dai suoi genitori e quali vorrebbe trasmettere ai suoi figli?

 

I miei genitori negli anni 60 erano molto liberi, persone controcorrente rispetto alla loro epoca. Mi sono sempre sembrati diversi dai genitori dei miei compagni di scuola ed è così anche ora: non ci hanno mai posto limiti e ci hanno cresciuto con questo spirito di libertà. Quando ho cominciato, il mio lavoro sembrava una follia ma loro l’hanno affrontato come una cosa possibile, quasi con incoscienza; questo mi ha spaventato ma mi ha permesso di tirare fuori più coraggio di quanto non fosse nella mia indole. I valori che vorrei trasmettere ai miei figli sono il loro anticonformismo assoluto, l’apertura verso gli altri e il coraggio di buttarsi nelle cose in cui credono andando fino in fondo.

 

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