Wise Society : Divercities: quando la diversità è un valore aggiunto

Divercities: quando la diversità è un valore aggiunto

di Fabio Di Todaro
29 Ottobre 2015

Il progetto di ricerca finanziato dalla Commissione Europea valuta l’impatto della diversità culturale, etnica, economica e socio-demografica sulla popolazione locale

La convivenza  è vissuta in maniera diversa, a seconda dei Paesi in cui la si indaga. Ma è opinione comune che l’esperienza delle persone dipenda da tre variabili: l’eterogeneità presente nel tessuto sociale, le caratteristiche individuali di chi vive gli spazi in questione e l’efficacia dell’azione svolta dalle istituzioni e dal terzo settore. Mescolando in maniera opportuna i tre elementi, la diversità può diventare un valore aggiunto.

DIVERCITIES: DI COSA SI TRATTA? – È questa l’istantanea che emerge dai risultati preliminari di Divercities, un progetto di ricerca quadriennale (partito nel 2014) finanziato dalla Commissione Europea e coordinato dall’Università di Utrecht. Quattordici i partner coinvolti, selezionati da 13 Paesi diversi. In Italia, dove il progetto è seguito dall’Università di Urbino, è stata presa in esame l’area metropolitana di Milano. Finalità dell’iniziativa: valutare l’impatto della diversità culturale, etnica, economica e socio-demografica sulla popolazione locale. «Nuove politiche e nuovi rapporti fra enti e istituzioni sono necessari e talora già esistono: noi li vogliamo analizzare per capirne i fattori di successo», è scritto nella presentazione del progetto che punta a fotografare la situazione presente nei quartieri multietnici di 14 città europee: Anversa, Atene, Budapest, Copenaghen, Lipsia, Londra, Milano, Parigi, Rotterdam, Tallinn, Varsavia, Istanbul, Toronto e Zurigo.

VIA PADOVA E NIGUARDA SOTTO LA LENTE DI INGRANDIMENTO – Le aree italiane finite sotto la lente di ingrandimento ricadono nel Comune di Milano: via Padova e il quartiere Niguarda. Si tratta di due territori a nord della città che in origine risultavano abitate soprattutto da gente del posto. Negli anni, invece, sono divenute zone prescelte – perché più accessibili – da emigranti italiani prima e da sudamericani, orientali e nordafricani poi. In mezzo anni difficili, in cui i due territori sono finiti sui giornali più per i fatti di cronaca nera che per le case di ringhiera, i laboratori sociali o la moltitudine di ristoranti – italiani ed etnici – che nel tempo vi hanno trovato spazio. Adesso la situazione è un po’ più tranquilla, ma non del tutto stabilizzata. Nel campione di 52 persone, intervistato dai ricercatori dell’università di Urbino guidati da Edoardo Barberis, ci sono italiani nati nella zona, residenti con trascorsi migratori, ragazzi italiani figli di genitori stranieri e immigrati. «Soprattutto nelle generazioni più anziane c’è chi tende a non identificarsi più con il quartiere», afferma Barberis, che non manca però di sottolineare come anche nei residenti stia crescendo la quota di chi nell’immigrazione vede un’opportunità, piuttosto che una sciagura. «La diversità è percepita come un punto di forza del quartiere ed è ritenuta importante nella costruzione dell’identità e del senso di comunità. È inoltre vista orgogliosamente come una caratteristica europea e moderna che rende la zona specifica nel panorama milanese». In effetti in altre città italiane ci sono zone periferiche che costituiscono delle vere e proprie sacche di emarginazione sociale: aspetto che non sembra più appartenere a queste due aree di Milano, dove «strade, parchi e altri servizi vengono utilizzati in maniera intensiva dagli abitanti come spazi di interazione sociale quotidiana, mentre si lamenta ancora l’assenza di servizi sportivi».

COME MIGLIORARE LA SITUAZIONE? – Il merito, secondo gli abitanti della zona favorevoli al melting pot, è da riconoscere a chi – spesso in maniera volontaria – si è adoperato per favorire l’integrazione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Le iniziative dal basso si moltiplicano e gli spazi in cui realizzarle aumentano: dal Parco Trotter al Centro Culturale Islamico. Ad agevolarle, a Milano come in tutte le altre città monitorate, è anche «la presenza di persone con basso reddito che hanno più probabilità di sviluppare reti relazionali all’interno del quartiere e quindi di riuscire ad avere legami sociali diversificati». Senza trascurare l’abitudine a frequentare bar e ristoranti da parte di cittadini italiani, curiosi di calarsi nel tessuto sociale di una strada che in città tutti conoscono. Non sempre, però, la buona volontà è sufficiente. Dal primo report stilato emerge, infatti, la «necessità di un intervento pubblico strutturato mirato a riqualificare i servizi e il patrimonio abitativo dei quartieri multiculturali». Altri consigli utili per valorizzare l’integrazione raccomandano di «preservare la diversità», «evitare l’omogeneizzazione delle aree diversificate», «limitare la frammentazione e il conflitto», «migliorare gli aspetti estetici e funzionali del quartiere». Così anche vivere a braccetto con un cinese, un indiano e un ecuadoregno può diventare più facile.

Twitter @fabioditodaro

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