Quando le voci delle vittime sono state messe a tacere per sempre, sono le testimonianze di chi oggi ha lasciato la paura alle spalle a dare la forza per rovesciare il racconto della violenza sulle donne
Sappiamo che ogni 3 giorni in Italia una donna muore per mano di un uomo che conosceva bene. Sappiamo che il femminicidio è spesso l’atto finale di una sequela di violenze perpetrate in casa o dovunque la donna abbia sperato di salvarsi da un destino di spegnimento. Sappiamo che le donne soffrono in molti modi: perché subiscono violenza psicologica, fisica, sessuale e sappiamo che le reti di sostegno e le leggi a disposizione non sono sufficienti ad arginare un fenomeno che quest’anno, al mese di settembre, conta 79 vittime (dato, purtroppo, in aggiornamento).
Lasciarsi alle spalle la violenza domestica: il racconto in un libro
Ci sembra di sapere molto sul tema della violenza di genere perché la cronaca irrompe troppo spesso nel racconto di tragedie più o meno annunciate, restiamo sgomenti di fronte alla difficoltà di inquadrare questi fatti in leggi avanzate per la tutela effettiva delle cittadine. Cosa ci manca di conoscere, allora? Là dove le voci delle vittime sono state messe a tacere per sempre, sono le testimonianze di chi oggi ha lasciato la paura alle spalle a dare la forza per rovesciare il racconto della violenza sulle donne.
Queste storie hanno l’audacia di rivolgersi direttamente al cuore di quante sono in questo preciso istante sospese tra incubi e voglia di futuro. Lucia Annibali, Gessica Notaro, tanto per citare un paio di donne coraggiose il cui dolore ha motivato una presa di coscienza delle proprie possibilità e un senso di responsabilità verso una società tutta, troppo spesso sonnacchiosa adagiatamente su un substrato culturale ancora fortemente maschilista e discriminante verso l’autodeterminazione femminile.
Le storie possono cambiare la realtà propria e altrui. Lo ha pensato anche Materé, nome con cui Maria Teresa Aprile firma il suo primo libro pubblicato da Europa edizioni, “Nonostante tutto”. Un diario non più segreto in cui una matura donna di origini calabresi ricostruisce la sua vita nonostante un primo matrimonio rovinoso, caratterizzato da oppressione e violenze in famiglia. La storia di Maria Teresa Aprile è complessa e si snoda in diverse città italiane, luoghi in cui la donna ha scelto di spostarsi, ma anche di radicare una nuova serenità per se stessa e per i suoi figli.
In che momento hai capito che non si trattava di sopportare, ma di capire di essere vittima di una violenza psicologica e fisica?
Non è stato un momento, ma anni di riflessione – premette l’autrice che oggi vive una nuova vita in Lombardia, lontana dal suo ex marito -. Quando ho imposto la mia volontà di lavorare e ho avviato una attività ero ancora giovane: avere contatti col pubblico mi ha permesso di scoprirmi capace e mi sentivo apprezzata. Anche le insegnanti dei miei figli mi apprezzavano e un’assistente sociale mi diede coraggio quando ancora non esistevano reti antiviolenza sui territori. L’unica persona per cui non ero valida era mio marito e me lo dimostrava con le botte fino a che il micio interiore ha deciso che era arrivato il momento di smettere di subire.
In quale momento hai sentito che scrivere la ta storia potesse aiutare te e gli altri?
Scrivere la mia storia è stata una idea antica. Ogni fatto di cronaca che riguarda la violenza e il suo sfociare in un femminicidio mi provoca moltissima rabbia e questo aumento dell’attenzione, anche mediatica, mi ha portato a riflettere e sentire il bisogno di condividere il mio vissuto. Perché non di solo dolore è composta la mia storia e nelle pieghe delle nostre ragioni per vivere dobbiamo trovare la forza di reagire. La molla per scrivere per me è stata questa: sono la testimonianza vivente che si deve reagire, per quanto sia faticoso e per quanto si pensi da sole di non avere le risorse necessarie. Si deve sempre provare a desiderare il bene per se stessi e si può anche fare. La mia fede, i miei figli, l’esempio che posso essere per loro sono stati un motivo essenziale.
Come reagisci di fronte alle notizie di violenza e femminicidio o di fronte ai dati disastrosi in molte aree del Paese della capacità di conciliare famiglia e lavoro per le donne?
“Provo dolorosa rabbia: vorrei che la lei della notizia in questione non andasse mai all’ultimo appuntamento per chiarire con l’ex. Quando si parla di morte annunciata, di denunce che non sono bastate a evitare la tragedia, provo grosso dolore. Eppure ci sono dinamiche che si ripetono: uomini che non accettano le sconfitte, partner che pensano di poter farla franca e raggirare chiunque per perseguire propri scopi. Uomini fermi a un mondo in cui le donne non hanno valore per se stesse ma in rapporto al grado di appagamento che possono procurare ai loro compagni. C’è un elemento subdolo in questa relazione. Non sei dichiaratamente obbligata a fare cose per soddisfare i suoi desideri, ma mette te nella condizione di credere che quello sia il solo modo per te di agire correttamente, fino a che non nasce un moto di ribellione interiore che permette di aprire gli occhi su questa forma di inganno. La dipendenza psicologica si sviluppa anche così, insieme a una negata autonomia finanziaria che inchioda le donne a non poter essere libere di andarsene. Qui la difficile conciliazione famiglia-lavoro è determinante, e nel nostro Paese è un tema, purtroppo, tutto femminile. L’informazione corretta e completa può aiutare a compiere scelte coraggiose, così come le testimonianze positive”.
Si parla di educazione al consenso come argomento scolastico. Quale ruolo può avere l’educazione?
Innanzitutto va detto che le reti antiviolenza di aiuto sono aumentate, l’attenzione al tema è alta e le leggi teoricamente ci sono. Eppure non basta. Il rispetto dell’individuo, e dunque delle donne, là dove non è respirato in casa può essere trasmesso soprattutto a scuola. Nel mio caso sono state proprio una educazione ferrea e una fede timorosa a far rimandare il momento di una decisione di forte di distacco da mio marito. L’illusione di poter cambiare la mente del partner, che lui capisca di aver sbagliato è nemica della nostra serenità e delle nostre speranze di felicità. Gli atteggiamenti di prepotenza si possono intercettare in molti contesti sociali sin dalla tenera età: sarebbe importante avere personale formato a riconoscere i segnali di una sofferenza dovuta a una violenza e preparato per educare ai valori del rispetto e del consenso rispetto ai rapporti e alle relazioni. Questo libro, a suo modo, vuole contribuire a sviluppare una cultura di consapevolezza e di fiducia.
Rosy Matrangolo