Giuseppe Mascoli, fondatore della catena inglese "Franco Manca", dopo la quotazione delle sue pizze alla borsa di Londra, torna in Italia e apre a Salina un locale dove produce anche vino ancestrale
Nato a Positano, laureato in Filosofia a Urbino, specializzato in Scienze del comportamento alla London School of Economics dove per due anni è stato assistente professore. Poi la svolta con l’addio alla cattedra e l’apertura, sempre all’ombra del Big Ben di un club – il Blacks, «perché – come racconta con un sorriso sornione – il mondo universitario era noioso». La vita di Giuseppe Mascoli, italiano trapiantato a Londra dal 1989, sarebbe già interessante così. Se non fosse che questo è solo l’inizio della storia di un uomo pieno di sfaccettature che, oggi, dopo aver rilevato con l’esperta panificatrice Bridget Hugo la pizzeria Franco Penza e averne fatto una catena da 45 locali battezzata “Franco Manca” – «perché Franco non c’era più» – distintasi per l’attenzione alle materie prime e all’ambiente, non è ancora pago. L’abbiamo incontrato a Salina, nelle Isole Eolie, dove ha appena festeggiato il primo compleanno dell’unica pizzeria italiana della catena.
A fare la fortuna di “Franco Manca” è stata proprio la cura messa nel lavoro di ricerca delle materie prime. Cosa l’ha portata a fare queste scelte?
Sia io che Bridget avevamo le idee molto chiare perché facevano già parte del nostro stile di vita. Abbiamo cercato il meglio degli ingredienti locali e l’abbiamo abbinato con altre eccellenze come i capperi di Salina.
Perché avete deciso di aprire un locale a Salina?
Mi sono innamorato dell’Isola quando sono arrivato alla ricerca dei capperi migliori per le nostre pizze. Anche per la pizzeria di Salina abbiamo voluto il meglio del territorio e molte materie prime sono diverse rispetto a quelle utilizzate in Inghilterra. È impossibile, però, avere mozzarella isolana. Avremmo potuto prenderla in Campania, ma abbiamo deciso di farcela fare a Milazzo per evitare che faccia troppa strada.
Una sorta di “chilometro zero”?
Io lo chiamerei chilometro uno, o per citare Troisi visto che siamo a Salina (nell’Isola è stato girato “Il postino”, nda), direi chilometro tre.
Si tratta di una scelta che deriva da una visione etica della vita?
Sì, per me etica ed estetica sono molto vicine, si legano moltissimo. Da ebreo ho letto con molto interesse l’enciclica di papa Francesco sulla terra “Laudato si’”che si sofferma proprio su questo legame. È l’aspetto quantitativo dell’economia a distruggerci. Nell’economia formale si seguono dei numeri che non è detto che funzionino, mentre ciò che è intuitivo ed empatico e non quantificabile spesso funziona.
Si considera un ambientalista?
Lo sono. Nelle nostre pizzerie abbiamo intrapreso dall’anno scorso una campagna contro la plastica eliminandone ogni utilizzo e stiamo continuandola con buon riscontro.
Parlando di economia la catena “Franco Manca” oggi è di proprietà del fondo “The Fulham Shore” ed è quotata alla London Stock Exchange…
È uno strano connubio: un Frankenstein, perché tali sono le compagnie quotate, che va a braccetto con l’etica e l’estetica. Ad oggi i nostri locali sono 46, la maggior parte sono a Londra dove la catena è nata nel quartiere di Brixton, e dieci sono fuori Londra compresi quelli di Oxford, Brighton, Southampton e l’ultimo nata a Cambridge.
Come fare a far convivere l’etica con la quotazione in Borsa?
È una cosa che si costruisce giorno per giorno. Di fatto una società quotata, che è un individuo giuridico, è costretto a essere un sociopata perché il suo impegno preminente è fare più soldi.
Questa pizzeria a Salina può essere la testa di ponte per un ampliamento della catena “Franco Manca” in Italia?
No, a meno che non ci sia qualcuno davvero interessato a sviluppare un lavoro legato al piccolo territorio di cui conosca le produzioni locali di formaggi, ortaggi che facciano della pizza un gioiello. Sarebbe inutile replicare in altro luogo, per esempio, le peculiarità di Franco Manca Salina. Faccio un esempio: pesce spada e mentuccia fresca non darebbero riconoscimento locale a una pizzeria milanese. La replicabilità è solo una scorciatoia. Se, per esempio, mi trasferissi a Tortona dove sono socio della Cooperativa Valli Unite potrei fare un buon lavoro perché conosco bene i prodotti locali, ma sarebbe diverso in altri posti.
Non è un controsenso rispetto alla catena “Franco Manca” che si basa appunto sulla replicabilità?
Infatti io sono abbastanza contrario a quello che ho creato, e soffro della sindrome di Frankenstein. Non a caso Mary Shelley ha scritto il suo romanzo proprio quando nasceva la prima società a responsabilità limitata che, per quel periodo, era un Frankenstein».
Il locale di Salina, però, è perfettamente calata nella sua realtà e non dà l’idea di un Frankenstein…
Salina è ancora un’Isola produttiva, non è un museo sclerotizzato come capita agli altri Patrimoni dell’Unesco.
Si spieghi meglio
A me questa storia dei Patrimoni dell’Umanità fa molta paura. Città che stanno già economicamente morendo vengono certificate come “luoghi di visita” diventando musei a cielo aperto e a volte sono condannate a morire. A Salina, invece, ancora si produce: capperi, uva e anche pomodori e vino come quelli che produco io stesso. I pomodori sono la varietà del Piennolo che a Salina crescono con una buccia dura e croccante, il vino invece lo chiamo ancestrale perché lo faccio con le uve che crescono naturalmente nei miei terreni.
Oltre che a Salina, lei è socio della Cooperativa Valli Unite in Piemonte. Di che si tratta?
È una cooperativa con 50 ettari di terreno oltre 20 ettari di bosco dove vivono maiali bradi. Il nostro progetto è etico, legato all’economia non quantitativa senza competizione gerarchica che si nutre di piccola cooperazione.