L'Istat e il Cnel hanno messo a punto un nuovo indicatore economico: il Benessere equo e sostenibile, che affianca e in parte sostituisce il vecchio Prodotto Interno Lordo. Perchè lo stato di salute e la vivibilità del nostro Paese non si possono più misurare solo con cifre e statistiche
Cosa intendete per benessere? È stata questa la domanda di base, rivolta a tanti diversi cittadini della società civile, da cui sono partiti i ricercatori del Cnel per definire insieme all’Istat il Bes, “Benessere equo e sostenibile” nuovo indicatore economico, destinato da ora in poi ad affiancare il Pil.
L’obiettivo del recentissimo parametro (presentato appena qualche settimana fa a Montecitorio) dovrebbe permettere di superare i limiti e le contraddizioni del vecchio Prodotto Interno Lordo, che misurava a colpi di numeri e statistiche soltanto la crescita di un Paese e non lo stato di “salute” e vivibilità nel suo insieme, condizioni da garantire anche alle generazioni che verranno.
Proprio per questo, ed è la prima novità, il Bes non è unico ma un insieme di 134 indicatori che indagano 12 ambiti della nostra vita: dall’economia all’ambiente, dal lavoro alle relazioni sociali, dalla salute all’istruzione, dalla sicurezza alla qualità dei servizi. E offrono una fotografia dell’Italia con molte differenze, tante conferme ma anche parecchie sorprese. La seconda novità è la condivisione: il fatto che l’indice di benessere non sia stato definito a priori o a tavolino ma proprio attraverso le risposte e le percezioni della gente comune, elaborate da un apposito Comitato di indirizzo.
Partendo da uno dei settori più importanti, quello della salute, si scopre che la vita media degli italiani continua ad aumentare (79,4 per gli uomini e 84,5 per le donne) grazie sia a una riduzione della mortalità in tutte le età, soprattutto in quelle adulte e anziane e a una bassissima mortalità infantile, ma con sempre più forti disuguaglianze sociali e di genere. Nel Nord si vive più a lungo e meglio, mentre il Mezzogiorno (Sud e isole) è doppiamente penalizzato: chi vive lì oltre ad avere una vita media più breve è svantaggiato anche nella qualità della sopravvivenza.
E sempre per quanto riguarda questo aspetto la maggiore longevità delle donne non è accompagnata da una migliore qualità della sopravvivenza: le donne vivono meno anni in buona salute rispetto agli uomini perché sono colpite più frequentemente e più precocemente da malattie degenerative e invalidanti che limitano la loro mobilità e le attività quotidiane.
Altro punto interessante: con l’aumentare dell’età le disuguaglianze sociali pesano anche sullo stato di salute, soprattutto fisica: tra gli anziani la distanza tra le persone più istruite (titolo di studio superiore al diploma) e quelle meno scolarizzate (licenza scuola media inferiore) è di circa 5 punti e per le donne anziane nel Mezzogiorno arriva al 7.
Determinante, come ormai medici ed esperti ripetono spesso, l’impatto degli stili di vita sulla salute a tutte le età: nel nostro Paese l’eccesso di peso (che riguarda di più i maschi e i meno istruiti) è ancora un grave problema soprattutto al Centro e nel Mezzogiorno e non ancora abbastanza diffusa un’alimentazione corretta con regolare consumo di frutta e verdura fresche.
Si fuma e si beve un po’ meno in generale, ma sono più a rischio di un tempo i giovani (20-24 anni) che consumano più alcool e più fuori pasto (modelli nord-europei tipo binge drinking) e i giovanissimi (14-19) unica fascia d’età dove non si è ridotta l’abitudine alla sigaretta.
Istruzione e benessere vanno di pari passo in una società civile, conferma il rapporto, ma nonostante i miglioramenti degli ultimi dieci anni in Italia siamo ancora molto indietro e con profonde differenze Nord-Sud. I livelli di istruzione, competenze e formazione sono ancora insufficienti per un Paese moderno e competitivo, indietro rispetto agli altri d’Europa.
Le donne restano le più istruite (ormai più non soltanto tra le giovani) mentre i gli uomini hanno più competenze numeriche e informatiche; la scuola del resto non riesce a colmare lo svantaggio familiare di partenza e il contesto socio-economico dei genitori è sempre direttamente proporzionale ai buoni risultati scolastici dei figli. E, nonostante il generale aumento della partecipazione universitaria, le disuguaglianze tra classi sociali restano altissime e la laurea sta perdendo sempre più importanza come valore di mobilità sociale.
Preoccupante poi il netto calo della partecipazione alla vita culturale da parte degli italiani causata dalla crisi economica: meno cinema, mostre e spettacoli, meno letture di giornali e riviste (ma per fortuna non di libri), meno visite a musei e monumenti, con un graduale impoverimento anche da questo punto di vista.
Sempre più importanti per il benessere individuale e collettivo sono le reti di relazioni (familiari e amicali): l’associazionismo e il volontariato (dove sono impegnati di più i giovani, le donne e gli uomini cinquantenni) restano un tradizionale punto di forza del nostro Paese che viene in aiuto alle strutturali carenze pubbliche, anche se nel corso degli anni e in particolare nel 2012 la percentuale degli nostri connazionali coinvolta in attività di partecipazione sociale è in calo rispetto agli anni precedenti (23,5% contro il 25,7 del 2005 e il 26,9 del 2010).
Le reti sociali allargate sono però molto meno forti al Centro-Sud, dove è centrale la famiglia, e in generale il nostro è un Paese dove ci si fida poco degli altri: solo il 20 percento delle persone sopra i 14 anni (anno 2012) ritiene che gli altri siano degni di fiducia. Un dato ben al di sotto della media degli altri Paesi Ocse, che incide negativamente sullo sviluppo della vita economica, politica e sociale dell’Italia. Solo dove la reciproca fiducia tra i cittadini è alta la società funziona meglio: è più cooperativa, più coesa e meno corrotta. Tra le sorprese di genere: gli uomini (tra i 45-59 anni) e i ragazzi tra i 14-19 hanno più fiducia negli altri delle donne.
Ormai lo sappiamo: senza un ambiente sano e sostenibile non c’è benessere né presente né futuro ed è per questo che il Bes gli dedica un capitolo fondamentale e registra dati contrastanti. Aumenta la disponibilità di verde urbano e aree protette ma il dissesto geologico di tutto il territorio e gli alti livelli di inquinamento di tante città italiane (soprattutto al Nord) sono in aumento costante con gravi rischi per la salute. Aumentano i consumi di energie rinnovabili ma non in maniera omogenea e si spreca più acqua che nel resto d’Europa.
Per quanto riguarda ricerca e innovazione delle imprese, L’Italia recupera lentamente il suo gap ma è ancora molto indietro rispetto ad altri Paesi UE; insufficiente anche l’occupazione nel settore dell’high-tech e le attività di ricerca e innovazione si concentrano quasi esclusivamente nel Nord e nel Lazio, confermando un enorme divario tecnologico tra le regioni più virtuose del Nord (Trentino, Valle d’Aosta e Veneto) e i fanalini di coda del Sud (Sardegna, Molise, Calabria).
Infine per uno standard minimo di benessere non si può prescindere dalla qualità dei servizi (pubblici e privati) che un Paese deve offrire ai propri cittadini e che rappresenta un importante strumento di redistribuzione e superamento delle disuguaglianze. Anche qui a livello territoriale persistono grandi differenze tra il Centro-Nord e il Sud e il divario dei servizi sta aumentando: in Calabria e in Sicilia ci sono addirittura un quarto delle famiglie che non ricevono regolarmente l’acqua potabile.
Grandi ritardi anche per quanto riguarda i servizi socio-assistenziali, con lunghe liste d’attesa, aumentata solo l’offerta di quelli per l’infanzia (ma con bassa qualità) e l’assistenza domiciliare , ma soltanto in alcune regioni.
Paese spaccato anche sulla raccolta dei rifiuti (con particolare riferimento alla quota smaltita in discarica che in Italia si aggira sul 46,3 percento contro il 37% della media Ue e il virtuosissimo 1% di Germania, Svezia, Paesi Bassi e Austria) che, se ancora lontana in generale dal livello degli altri Paesi UE è in netto miglioramento, con diffusione di buone pratiche al Nord e invece profondi ritardi e inefficienze al Centro-Sud.
Infine gli spostamenti nelle città che incidono in modo rilevante sulla qualità della vita dei cittadini. Una mobilità davvero sostenibile è ancora all’orizzonte nei centri cittadini del nostro Paese e gli italiani dedicano in media agli spostamenti non a piedi (mezzi pubblici, auto, ecc) quasi un’ora al giorno con un picco di 88 minuti nel Lazio, la regione che a causa della difficile mobilità nella Capitale spreca più tempo nei tragitti casa-lavoro-trasferimenti vari.
Ultima e non certo poco rilevante conferma, al capitolo “Benerssere economico”, il rapporto conferma il recente allarme di Confcommercio sulla nuova povertà secondo cui nel nostro Paese abbiamo raggiunto la cifra record di 4 milioni di nuovi poveri (al ritmo di 615 al giorno dal 2006 a oggi) e solo 38 persone occupate su 100.
Riduzione dei posti di lavoro, erosione del potere d’acquisto (con i prezzi cresciuti molto più dei redditi soprattutto tra 2007 e 2012), forte disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza hanno fatto salire il rischio di povertà nel nostro Paese più che nella media UE (19,6 nel 2010). In condizioni peggiori i giovani, le donne e chi vive nel Mezzogiorno, con famiglie sempre più indebitate e che hanno eroso da tempo i propri risparmi.
In particolare è cresciuta la quota di persone che non possono sostenere spese impreviste, nè permettersi una settimana di ferie all’anno lontano da casa e di non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione. In totale dunque quasi 7 milioni di italiani sono in grave difficoltà economiche, pronti a scivolare nell’indigenza assoluta. Un problema che ci riguarda tutti in prima persona se vogliamo, al di là degli indicatori, innescare un vero cambiamento verso un futuro migliore.