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Niccolò Fabi: “Quel dolore che mi ha fatto scoprire gli altri”

di Vincenzo Petraglia
4 Gennaio 2012

La fine prematura della sua piccola Olivia è stato l'inizio della vita di tanti altri bambini. Così, attraverso la Fondazione a lei dedicata, il cantautore e musicista Niccolò Fabi ha trasformato una lacerazione che non guarirà mai nella possibilità per molti piccoli dell'Angola di avere un futuro

Nella sua canzone Solo un uomo Niccolò Fabi canta: «La gioia come il dolore si deve conservare, si deve trasformare». Un passaggio che il cantautore romano ci spiega così: «Il dolore, come poche altre cose al mondo, arricchisce perché costringe a guardarsi in maniera diversa e a dare le giuste priorità a ciò che si ha».

Niccolò Fabi a Chiulo, Angola, dov'e stato da poco inaugurato il reparto pediatrico finanziato dalla Fondazione "Parole di Lulu"

Non sono solo parole. Perchè Niccolò un dolore immenso l’ha vissuto, in prima persona, perdendo nel 2010 la figlioletta Olivia, di soli 22 mesi, a causa di una meningite fulminante.

E insieme con la compagna Shirin Amini (artista e fotografa) è riuscito a trasformare quel dolore in qualcosa di grande, aiutando migliaia di bambini africani. Attraverso la fondazione Parole di Lulù (www.paroledilulu.it) con la quale il 30 agosto 2010, proprio in quello che doveva essere il secondo compleanno della loro piccola “Lulùbella”, è cominciato (con un grande concerto a Mazzano Romano, a cui hanno preso parte moltissimi artisti e oltre ventimila spettatori) un percorso che sta dando grandi frutti. In quell’occasione e tramite poi la vendita dei dvd del concerto sono stati, infatti, raccolti fondi grazie ai quali è stato da poco inaugurato un reparto di pediatria in Angola.

Per vivere in una società un po’ più saggia rispetto alla nostra da dove bisognerebbe ripartire secondo lei?

Bisogna partire dal piccolo lasciando perdere, invece, i megaprogetti e i grandi propositi. Spessissimo, infatti, se si pensa a qualcosa di troppo grande si finisce col non cominciare mai perché l’obiettivo sembra irraggiungibile. Se, invece, impariamo a partire dalle piccole cose, ognuno nel proprio quotidiano, forse possiamo riuscire pian piano a costruire, tutti insieme, un mondo migliore. È partendo da scelte concrete nel proprio piccolo che si può iniziare a ristabilire un nuovo equilibrio e vincere il senso di impotenza che altrimenti ci pervade.

Che contributo può dare la musica in tal senso?

La musica ha un piccolo ruolo e, come tale, è molto importante.

È per questo che ha scelto di collaborare con la Ong Medici con l’Africa Cuamm?

www.miofratelloafricano.itLi ho conosciuti nel 2007 a Khartum, in Sudan, dove mi trovavo per un concerto di beneficenza per il Darfur con una missione salesiana e in quell’occasione forse il Cuamm (www.mediciconlafrica.com) ha notato la mia sensibilità a certe tematiche e la sete di conoscenza di quel meraviglioso continente che è l’Africa. Mi hanno così coinvolto, insieme anche ad altri artisti e sportivi, nella campagna Mio fratello è africano (www.miofratelloafricano.it) per raccontare e promuovere il valore della fratellanza.

Il Cuamm è una Ong che lavora da oltre sessant’anni in Africa e mi ha conquistato col suo stile, poco dedito alla comunicazione e moltissimo, invece, al lavoro concreto sul campo. È nato così subito fra noi un istintivo legame che ci ha portati a fare già diverse cose insieme come, per esempio, un documentario in Uganda sul sistema sanitario locale e la mortalità infantile, situazioni di fronte alle quali, una volta che le si conosce, è difficile voltare pagina e passare oltre.

E, infatti, sempre in favore dei bambini avete portato da poco a termine la ristrutturazione del reparto pediatrico dell’ospedale di Chiulo, in un angolo sperduto dell’Angola…

Sì, e ne siamo davvero felici Il Cuamm opera in quello che loro stessi chiamano “L’ultimo miglio del sistema sanitario”, cioè l’ultimo segmento oltre il quale bisogna affidarsi solo alla sopravvivenza naturale perchè non c’è alcuna possibilità di essere curati. In Angola il tasso di mortalità infantile è il secondo più alto al mondo e in quella parte del Paese l’aspettativa di vita è di 38 anni, il tasso di incidenza dell’Aids sfiora il 10 percento e molte donne muoiono ancora di parto. Per questo un reparto come quello che abbiamo inaugurato può senz’altro dare speranza a molte persone.

Questo progetto, nato dal dolore per la perdita di sua figlia, ha creato nuova energia vitale per preservare la vita di tanti altri bambini sfortunati…

La potenza di una sofferenza così grande è un materiale incandescente, potentissimo che è stato importante indirizzare verso qualcos’altro. Fosse rimasta all’interno delle nostre mura avrebbe avuto probabilmente un effetto molto più distruttivo sulle nostre vite. Avere, invece, l’arte, la musica e delle persone con cui condividere ciò che abbiamo vissuto ha fatto sì che quest’energia potesse trasformarsi in combustibile per noi e per altri.

Cosa l’ha colpita di più del popolo africano? Qualcosa che magari non avrebbe mai immaginato…

www.mediciconlafrica.orgMi ha molto sorpreso l’incontro con gli occidentali che vivono e operano in Africa, facendo scelte spesso estreme per mettersi al servizio degli altri, lontani dalle loro sicurezze e da carriere professionali che avrebbero potuto avere rimanendo nel proprio Paese.

E dell’Africa, invece?

L’Africa è un continente incredibile, enorme nelle sue mille sfaccettature. Andarci è un po’ come tornare alle proprie radici, all’essenza della nostra natura umana. È un viaggio che tutti dovrebbero sperimentare prima o poi perché conduce nelle viscere del proprio essere.

In cosa trova diversi i bambini africani, pur nel loro avere poco, rispetto ai nostri bambini?

Sono speciali nel loro rapporto, anche proprio a livello genetico, con il dolore. Questi bambini hanno una grandissima resistenza ed autosufficienza ed è veramente raro sentirli piangere e lamentarsi. Da noi, invece, basta entrare in un asilo per capire che è l’esatto contrario proprio perchè lamentarsi ed essere sempre scontenti sono caratteristiche tipiche delle società più ricche.

E noi occidentali cosa abbiamo perso rispetto agli africani?

Sicuramente la conoscenza della natura e la consapevolezza di appartenere a un mondo di cui fanno parte anche tutte le specie animali. In Africa l’uomo è molto più vicino alla natura di quanto non sia vicino a un personal computer. Con questo non voglio negare il progresso tecnologico, ma dico soltanto che la conoscenza scientifica e il rapporto con la natura sono due saperi complementari che come tali dovrebbero essere portati avanti parallelamente. In Occidente, invece, abbiamo privilegiato l’uno a discapito dell’altro. Questo rapporto stretto con la natura e le sue leggi dà a questi uomini e a queste donne un modo di vivere molto più naturale, per esempio, la separazione dai loro cari, anche dai loro figli, visti i tassi di mortalità infantile che ci sono da quelle parti. Ciò non significa che vivono la perdita con meno dolore, ma semplicemente che la accettano con più rassegnazione e consapevolezza. 

Pensa che oggi il mondo sia più attento o invece, complice la crisi, più distratto rispetto ai problemi altrui?

www.paroledilulu.itForse la crisi mondiale non è stata mai tanto potente da far sentire ognuno di noi così in pericolo, ma credo che possa essere una grande occasione per il genere umano perché, proprio nei momenti di crisi e quando ci si sente indifesi, ci si rende veramente conto di quello che siamo e di ciò che ci sta attorno. La sopravvivenza di ognuno di noi non può prescindere da quella degli altri perché nessuno di noi è una camera isolata, viviamo tutti sullo stesso Pianeta per cui la speranza è che quanto stiamo vivendo ci renda tutti più sensibili.

È ottimista riguardo al nostro futuro?

La mia paura è che la rapidità con cui il progresso si muove, e con esso anche le conseguenze negative che ne derivano, ci stia portando a un punto critico, senza più possibilità di ritorno. La politica oggi è ormai completamente subordinata all’economia ma la sopravvivenza del Pianeta e delle prossime generazioni non si può fermare soltanto a questo. Pensiamo, per esempio, ai danni immani che continuiamo a fare all’ambiente. Bisogna invertire la rotta altrimenti diventerà difficile, se non impossibile, porre rimedio a questa situazione.

 

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