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Gianrico Carofiglio: “Ecco perché gli errori ci rendono persone migliori”

di Vincenzo Petraglia
16 Luglio 2024

Uno degli scrittori più amati del nostro tempo ci svela come superare la paura di sbagliare per trasformare gli errori in un'occasione per crescere e migliorarci

Gianrico Carofiglio è indubbiamente uno degli scrittori più amati del nostro tempo, per i suoi libri certamente, ma anche per il profondo spirito critico che lo caratterizza, abilità che forse gli deriva dalla sua vita precedente, quella di magistrato, professione che ha abbandonato per dedicarsi alla sua attività di scrittore appunto. L’abbiamo incontrato in occasione dell’evento milanese Estate al Castello 2024 – Milano è Viva, rassegna di spettacoli live organizzata dal Comune di Milano al Castello Sforzesco.

Carofiglio, in collaborazione con il Teatro Carcano di Milano, presenta il 16 luglio alle ore 21, in piazza Castello appunto, “Gli errori rendono amabili”, una performance dedicata al tema dell’errore e di come questo possa umanizzare e rendere le persone migliori, prendendo spunto da storie, aneddoti, libri, sport e dalla riflessione di personaggi come Pirrone,  Mike Tyson, Epitteto, Montaigne, Bruce Lee, Aristotele, Keats, Saunders e diversi altri.

Gianrico Carofiglio

Gianrico Carofiglio, dopo una lunga carriera come magistrato, ha esordito nel mondo della narrativa nel 2002 con il libro “Testimone inconsapevole”.

Perché gli errori rendono amabili?

Perché l’atteggiamento di quelli che non fanno mai errori o pretendono di non farne, li rende detestabili, mentre la fallibilità, l’imperfezione dichiarata, ammessa, rendono le persone molto più gradevoli verso gli altri. Insomma gli errori, umanizzandoci, ci rendono più simpatici agli altri.

Accettare l’idea che sbagliare non è una catastrofe ma un passaggio fondamentale del processo di apprendimento, di soluzione dei problemi, di cambiamento del mondo, ha l’effetto di farci raggiungere quella che Carl Gustav Jung chiama integrazione, di pacificarci con noi stessi, di renderci più benevoli verso noi stessi e di farci diventare delle persone migliori.

In Italia, però, contrariamente a quanto avviene in altre culture, come quella americana o cinese per esempio, il fallimento viene molto stigmatizzato… Quale è la radice di un tale approccio?

Purtroppo è così e deriva da ragioni storiche e religiose. Eppure l’abitudine alla pratica dell’errore è quella che ci protegge e riduce il rischio degli errori catastrofici, fatti in genere da quelli che hanno il terrore di sbagliare. Imparare a sbagliare velocemente e col minimo danno è la cosa migliore.

L’errore è una parte inevitabile dei processi di apprendimento e di crescita, se solo si è capaci di ammetterlo e di trarne profitto, anche solo per non ripeterlo tal quale. Non negare la nostra ignoranza è la premessa per continuare a imparare e per cercare di ridurre al minimo le conseguenze dei nostri errori. Sto scrivendo un libro, una piccola pubblicazione, proprio su questo tema…

Una consapevolezza che probabilmente le deriva anche dal suo essere un ex magistrato, una figura molto importante e delicata nel sistema sociale, perché le sue decisioni possono avere conseguenze enormi sulle vite delle persone…

Il primo capitolo del libro è centrato proprio su questo, sugli incredibili e inattesi errori  e le relative conseguenze che possono scaturire dall’attività giudiziaria. Credo che per chi fa questo lavoro sia fondamentale essere permeati da una cultura del dubbio e dell’errore.

Non bisogna procedere per certezze assolute, sempre pericolosissime. Quindi è importante mettere sempre in dubbio le proprie ipotesi e fare le dovute verifiche, affinché si possa ridurre il più possibile il rischio per indagini e processi di produrre danni importanti a causa dei propri, sempre possibili, errori.

Anche lo sport – lei pratica abitualmente arti marziali – è una delle palestre più efficaci in tal senso, considerando che gli atleti devono trovare sempre il modo di trasformare le inevitabili possibili sconfitte in uno stimolo per superare gli ostacoli e migliorarsi.

Certamente, lo sport è ricco di queste metafore. Recentemente ho letto un intervento di Roger Federer tenuto durante la cerimonia di conferimento del dottorato ad honoris in lettere umane dal Dartmouth College, università prestigiosa del New Hampshire.

Nel suo discordo ha usato il tennis come metafora della vita, sottolineando come nella sua lunga carriera abbia vinto l’80 per cento delle partite disputate, ma abbia vinto soltanto il 54% dei punti giocati.  Questo per dire che i migliori non sono tali perché vincono ogni punto, ma perché sanno dare il meglio di sé nei momenti importanti e imparare dai propri errori e dalle proprie sconfitte.

La prima cosa che viene insegnata nelle arti marziali è imparare a cadere, per addestrare così al combattimento e alla vita, senza farsi male e rialzandosi presto.

Cosa significa per lei essere una persona saggia, “wise”, oggi?

Significa essere capaci di resistere al bisogno di mettere etichette e giudicare e prendersi del tempo per confrontarsi con la complessità. E a tal proposito mi piace citare Jung: “Pensare è molto difficile. Per questo la maggior parte della gente giudica. La riflessione richiede tempo, perciò chi riflette già per questo non ha modo di esprimere continuamente pregiudizi”.


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Vincenzo Petraglia

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