Wise Society : Ciò che non si dona va perduto. L’ho imparato nelle bidonville di Calcutta
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Ciò che non si dona va perduto. L’ho imparato nelle bidonville di Calcutta

di Vincenzo Petraglia
4 Maggio 2012

Molti anni fa, lo scrittore Dominique Lapierre ha fatto un incontro che gli ha cambiato la vita: quello con Madre Teresa, in India. Da allora non ha mai smesso di dedicare agli ultimi del mondo tutto quello che ha

L’entusiasmo di Dominique Lapierre è davvero contagioso. Lo stesso entusiasmo che lo ha spinto, a partire dai primi anni Ottanta, a mobilitare e coinvolgere migliaia di persone in tutto mondo per una nobile causa: mettersi al servizio degli ultimi fra gli ultimi. Un passato come reporter di successo e scrittore di best seller, poi nell’81 l’incontro con Madre Teresa di Calcutta e con coloro che sarebbero di lì a poco diventati i protagonisti del suo romanzo forse più amato dal pubblico: La città della gioia. Eroi contemporanei e invisibili che, nonostante le condizioni di estrema povertà nelle più abbandonate e degradate bidonville indiane custodiscono sorrisi, valori, sentimenti che folgorarono letteralmente il giornalista francese. Da allora la sua vita è cambiata e il suo è diventato un costante, infaticabile impegno per i più poveri. Insieme alla moglie ha creato una fondazione, finanziata da donazioni e dai diritti d’autore dei suoi successi letterari, che in tutti questi anni ha salvato migliaia di vite e dato un futuro a chi altrimenti non avrebbe mai potuto averlo.

L’insegnamento della religiosa Nobel per la Pace

 

Da dove bisognerebbe ripartire per vivere in un mondo un po’ più saggio di quello attuale?

Penso che dovremmo ascoltare il messaggio di Madre Teresa che diceva: “Non è necessario venire a Calcutta per cambiare il mondo”. Ovunque ci si trova, se si vuol davvero non essere indifferenti alla sofferenza altrui, si può fare qualcosa: a Milano come a Saint Tropez o a Parigi. Ciascuno di noi, ognuno nel proprio piccolo, può contribuire a fare di questa Terra un mondo più giusto. Credo che sopra ad ogni cosa dobbiamo imparare a tendere una mano fraterna a tutta quella gente, tantissima, che mai riceve un segno di amicizia o di amore dagli altri. Dobbiamo condividere di più perché tutto ciò che non è dato è perduto e ogni sorriso non dato è perduto.

L’amore e pochi soldi possono aiutare molte persone

 

Proprio l’incontro con Madre Teresa ha segnato profondamente il suo percorso di vita. Che ricordo le ha lasciato?

Madre Teresa è il simbolo universale della carità e della possibilità che ciascuno di noi ha di cambiare le ingiustizie. La conobbi alle cinque e mezzo della mattina nella sua cappella di Calcutta e da allora non mi sono più fermato, non ne ho più potuto fare a meno, anche perché attraverso quell’incontro ho capito che con l’amore e con pochi soldi era possibile cambiare la vita di moltissime persone. Lei era straordinaria e diceva sempre: «In India abbiamo una lebbra, ma nel vostro ricco Occidente c’è una lebbra molto peggiore di quella di Calcutta e si chiama solitudine». Nelle bidonville indiane, infatti, pur nella più assoluta indigenza, mai nessuno viene lasciato solo, c’è sempre qualcuno nella rete sociale che in qualche modo ti sostiene. Nelle nostre città, invece, spesso non si conosce neppure il vicino di pianerottolo e siamo quindi tutti, drammaticamente, più soli. E mentre la lebbra che colpisce il fisico può essere curata con i farmaci, quella dell’anima, frutto di un tragico fallimento sociale, è molto più difficile da sanare, ma, se si vuole, la si può curare: con l’amore.

Come vede la situazione attuale in questo scenario di crisi finanziaria che sempre più condiziona le nostre priorità e le nostre scelte?

Questo scenario ha certamente ridotto la disponibilità delle persone a donare risorse ed energie in favore di chi ha bisogno, però io ho profondamente fiducia nell’uomo, nelle tante persone di buona volontà che, pur nelle loro difficoltà, non volteranno le spalle a chi ha davvero bisogno: non del superfluo ma del necessario. E devo dire che gli italiani da questo punto di vista sono davvero incredibili. Ho sempre trovato in Italia un’apertura del cuore, una generosità, una solidarietà assolutamente uniche. E anche nel Terzo Mondo ho incontrato più medici e infermieri italiani che di nessun’altra nazionalità. Per cui il mio amore e la mia riconoscenza per il vostro Paese sono davvero grandissimi e credo che, dopo India mon amour, forse un giorno potrò scrivere un libro intitolato Italia mon amour.

Non rimanere spettatori di fronte alle sofferenze

 

C’è differenza tra un giornalista di strada che, attraverso i suoi articoli e i suoi libri, denuncia le ingiustizie del mondo e un filantropo?

A volte possono essere la stessa persona. Un giornalista può, infatti, essere solamente uno spettatore oppure trasformarsi anche in attore, rimboccandosi le maniche e lavorando in prima persona affinché la situazione che ha raccontato o denunciato possa di fatto cambiare. Penso siano quindi due attitudini complementari. D’altronde la stessa Madre Teresa un giorno mi disse che non bastava che scrivessi bestseller ma occorreva che mettessi a frutto concretamente tutta l’esperienza che avevo accumulato impegnandomi nel grande lavoro di combattere le sofferenze del mondo. All’età di cinquantaquattro anni, l’invito e l’incitamento di quella piccola donna ha fatto sì che io passassi i successivi trent’anni della mia vita a spendermi in questa lotta alla povertà e alle ingiustizie che ancora oggi continuano a essere perpetrare nei confronti dei più poveri. Perché bisogna sapere che ci sono tuttora due Indie: quella dell’avanguardia tecnologica e del lusso sfrenato, popolata da ricchi che possono accedere a qualsiasi tipo di bene, e quella dei 350 milioni di poveri che ogni sera vanno a dormire con lo stomaco vuoto.

Qual è la ricompensa più grande che ha ricevuto finora dal suo impegno per i poveri?

Qualche settimana fa, mentre ero a Calcutta nell’ospedale che cura i bambini lebbrosi, ho incontrato Ashu, un ragazzo di diciotto anni che mi ha salutato con una gioia irrefrenabile sventolando in mano un pezzo di carta: il suo diploma di ingegnere meccanico. Quel ragazzo molti anni fa, all’età di sette anni, era stato ricoverato in uno dei nostri dispensari dove lo abbiamo salvato dalla lebbra dalla tubercolosi, dalla malnutrizione, consentendogli poi anche di studiare. Oggi con quel diploma può trovare un’occupazione, comprare un pezzo di terreno e costruire una casa perché tutta la sua famiglia possa lasciare la bidonville dei lebbrosi e vivere finalmente una vita normale. Questa è la più grande ricompensa che io possa mai ricevere e quando un giorno sarò al cospetto di Dio e lui mi chiederà «Cosa hai fatto, Dominique, sulla terra?», io potrò almeno rispondergli: «ho salvato Ashu».

C’è un insegnamento che gli ultimi tra gli ultimi le hanno dato?

Il più grande insegnamento che ho ricevuto dal popolo della Città della gioia sta nel loro modo di affrontare la realtà di ogni giorno, nella capacità di sopravvivere e rimanere in piedi di fronte a qualsiasi avversità. Il loro eroismo, la loro capacità di sorridere sempre, anche in situazioni al limite come quelle in cui vivono, e di ringraziare Dio per il più piccolo beneficio sono davvero straordinarie.

 

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