Il mecenate siciliano Antonio Presti ha fatto della sua esistenza un inno all'arte e alla condivisione. Ai giovani dice: «Studiate e non lasciatevi anestetizzare dalla tecnologia»
A chiamarlo mecenate non si sbaglia, anche se lui preferisce definirsi un uomo devoto alla Bellezza. Antonio Presti, siciliano (di Messina), classe 1957, alla Bellezza come condivisione, etica e dono ha dedicato tutta la sua vita. Sin da quando, dopo aver lasciato Ingegneria edile all’Università di Palermo per portare avanti l’azienda del padre scomparso, a 29 anni capisce che quella strada non può essere il futuro per chi, come lui, crede nell’arte e nel potere subliminale dell’estetica e dell’etica. Decide, allora di dedicarsi, anima e corpo, alla sua vocazione di artista e di regalare bellezza alla sua terra e alla sua gente. In ricordo del padre comincia a immaginare un percorso artistico che simboleggi la conservazione della memoria attraverso l’arte contemporanea: nasce così, a partire dal 1982, il Parco scultoreo di Fiumara d’Arte, nella Valle dell’Halaesa, in provincia di Messina. Da allora, la Fondazione Fiumara d’Arte promuove il valore della Bellezza come possibilità di cambiamento e di riscatto sociale e approda anche a Librino, quartiere periferico di Catania, cui il mecenate è profondamente legato da ormai 15 anni e cui, tra gli altri progetti di bellezza, Presti ha donato, nel 2009, la monumentale Porta della bellezza, un’enorme “scultura” con novemila forme di terracotta per 12 opere realizzate da artisti nazionali e dai bambini delle scuole del quartiere.
Presti, cosa significa per lei donare?
Il dono è lo stato di grazia e non riguarda solo il denaro o qualcosa di materiale ma tutto ciò che può essere donato, come il proprio tempo e il proprio lavoro. Basti pensare al volontariato, quando chi lavora gratis e mette il suo tempo a servizio di una causa in cui crede, davvero si ammanta di grazia. Se nella vita si sceglie la via del potere e del possesso non si troverà mai questo stato benefico e salvifico.
Quando e come ha deciso che quella del mecenate era la sua vera vocazione?
Si è trattato più di una presa di coscienza che di una decisione. Quando da adolescente, andavamo in giro con la mia famiglia, assistevo sempre alla solita scena: i miei presentavano mia sorella, più grande di me di due anni, come bellissima, brava, intelligente e orgoglio della famiglia. Dopo, indicavano me, limitandosi a dire: “E poi c’è Antonio, che è strano, pazzo e non è affidabile”. Sono cresciuto con questo mantra che mi frullava in testa, ma quando ho cominciato a comprendere, invece di cadere nella banale depressione, ho fatto di quegli aggettivi la mia forza. La stranezza l’ho intesa come estraneità, capendo che era qualcosa di potente e unico; la follia, in quanto lucida, è diventata la mia spinta a credere in imprese impossibili e, infine, l’essere considerato non affidabile è stato per me il non riconoscimento dell’allineamento al sistema: essere inaffidabile per un sistema che mi voleva asservito è stata la mia vittoria. Oggi, invece di essere normale, sano e affidabile sono felice di essermi mantenuto libero.
Si è mai pentito delle sue scelte di vita e dell’essere rimasto in Sicilia?
Mai, neanche per un attimo. Né quando ho subìto gli attentati mafiosi nel mio albergo (l’Atelier sul mare a Tusa, hotel-museo progettato da diversi artisti contemporanei); né quando ho subìto l’ennesimo attacco e affronto da parte del potere politico. Oggi sono felice di poter testimoniare di aver fatto un’impresa di bellezza, nella mia terra, mantenendomi onesto, vivo, libero e senza lasciarmi corrompere l’anima.
Quella Sicilia a cui lei ha tanto donato non sempre le ha manifestato gratitudine, a partire dalla vicenda di Fiumara d’Arte fino alla sentenza del CGA che ha annullato il comodato d’uso per l’ex villaggio turistico Le Rocce di Taormina stipulato tra la Città metropolitana di Messina e la Fondazione per il villaggio. Cosa ne pensa?
Sono un siciliano che ha superato tutte le prove, personali, interiori e pubbliche che si possano affrontare. La mia colpa è stata sempre quella di donare, anche con sacrificio, e andando al debito per continuare. Quando ho intrapreso il percorso di Fiumara d’arte ero, come sono ancora, convinto che il dono della bellezza esclude il concetto di proprietà, per cui ho fatto costruire tutte le opere su terreni demaniali. Questo mi è costato processi su processi che, però, nel tempo mi hanno dato ragione e oggi le sculture sono salve. Per quanto riguarda Le Rocce, invece, ho preferito non lottare per difendere quel comodato né chiedere risarcimento per quello che avevo già speso in circa tre anni. Avevo intrapreso una nuova avventura per riportare in vita un villaggio che era abbandonato da 50 anni e avrei impegnato tutto il mio patrimonio perché avevo intravisto in quel luogo la possibilità di un ultimo atto poetico verso la mia terra. Lì, tra polo museale, orto botanico, progetti di recupero e riuso ci sarebbe stato anche il dono ai “guerrieri di luce”: quelle anime innocenti con un cromosoma in più, ovvero i ragazzi con la sindrome di Down. Pensare di dovermi giustificare e difendere dall’accusa di speculazione, mi pare davvero indegno. Ho deciso di rinunciare anche alla causa e ho applicato la potenza dei giusti: donare.
Dopo una delusione cocente come questa, da cosa trae linfa per nuovi progetti?
Dalla mia innocenza. Più mi sento solo e abbandonato più mi supero come uomo. Mi date dello speculatore? Io rigenero bellezza. E ammetto di dover anche tenere a freno le mie visioni, perché oggi vedo il fatto, vedo il frutto delle mie visioni e penso che nulla sia impossibile.
In cosa è impegnato, al momento?
Verso Librino, come sempre, rivolgo il mio impegno maggiore. In quella periferia catanese, con 70 mila abitanti, mi sento amato anche da chi non mi conosce personalmente. Quando inaugurammo la Porta tutti dicevano “chissà quanto durerà?”, ma io feci un patto di impegno e di cuore con le famiglie sostenendo che se qualcuno l’avesse distrutta, avremmo avuto sempre il cuore felice di ricostruire. Finora non ce n’è stato bisogno, la Porta è protetta dagli abitanti che si riconoscono in un progetto di bellezza e arte totalizzante come quello. I cittadini delle periferie, spesso, sono degli invisibili e dar
loro la possibilità di esprimersi e riconoscersi è educativo. La Porta è un’agenzia educativa. E questo piaccia o non piaccia al sistema che delle periferie fa sempre luogo di devianza e malessere. L’arte non va mai in un luogo a recuperare ma solo a restituire umilmente. Io detesto la mistificazione della vita nelle periferie e ho sempre avuto un approccio di rispetto verso le famiglie di Librino: non ne faccio scimmie da recuperare ma uomini da rispettare.
Cosa consiglia ai giovani di oggi?
Di studiare e di non rimanere schiavi della tecnologia e della solitudine. Io sono figlio della generazione che, alle 17, ogni giorno vedeva il maestro Manzi in tv che cercava di alfabetizzare il popolo. Oggi stiamo assistendo a un processo opposto: si sta analfabetizzando la gente e addormentando le coscienze che vengono anestetizzate con internet e la tecnologia. Si sta creando solitudine, separazione, divisione e sottomissione all’ignoranza.
Ci racconti del progetto attualmente in corso il “Cantico di Librino”.
Ho avuto una visione stupenda. In questo momento i fotografi sono al lavoro nei laboratori per fotografare 1400 abitanti di Librino, dai bambini agli anziani. Le foto verranno installate su giganteschi banner verticali accompagnate da una frase del Cantico delle Creature di San Francesco in modo da offrire, anche solo per un attimo, a chiunque guardi quelle immagini, la possibilità di scollegare il pensiero dalla bassezza terrena e collegarsi con il sublime. E io sono convinto che, quando questo accade, il ritorno al quotidiano non può più essere lo stesso. Penso che potremo essere pronti per maggio. Poi ho altri progetti in mente, per assicurare continuità, mantenendo attiva questa lavatrice spirituale potentissima e la comunicazione positiva su questa periferia.