In valore assoluto si parla di almeno ottantatremila infezioni annue. "Mancano piani di prevenzione" denuncia Gabriella de Carli dell'Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma
I più a rischio sono considerati gli infermieri. Ma anche i medici e gli operatori socio-sanitari non sono considerabili al riparo dalle infezioni ospedaliere e dalle esposizioni a rischio biologico negli ospedali, di cui si è spesso portati a pensare relativamente soltanto ai pazienti. Ogni anno gli incidenti di questo tipo in Italia sono all’incirca centomila: con una quota pari almeno a un terzo che non viene nemmeno dichiarata. Ma esiste ed è rappresentata per lo più da incidenti cutanei: tagli, lesioni, punture. In agguato c’è la trasmissione di patogeni di non poco conto: con i virus delle epatite B e dell’epatite C e dell’Aids (Hiv) in agguato. In valore assoluto si parla di almeno ottantatremila infezioni annue riconducibili a un’esposizione professionale, stando ai dati emersi in occasione del sesto summit europeo sulla biosicurezza.
GLI INFERMIERI LE FIGURE PROFESSIONALI PIÙ A RISCHIO – «Anche i più recenti dati disponibili evidenziano infatti ancora una disomogeneità di utilizzo a livello italiano – dichiara Gabriella De Carli, esperta di rischio occupazionale da Hiv all’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma -. C’è sicuramente una maggiore attenzione al problema, ma molto resta da fare. Abbiamo evidenziato come, implementando tutti gli interventi preventivi previsti che includono l’adozione di aghi e dispositivi di sicurezza, si possa ridurre drasticamente il fenomeno infortunistico». Ma di strada da fare ce n’è ancora tanta, se secondo i dati del Ministero della Salute relativi agli acquisti nel settore pubblico la percentuale di conversione da dispositivi convenzionali a dispositivi di sicurezza è pari a poco più della metà: relativamente ai soli dispositivi per accesso venoso periferico (gli aghi cannula), i più pericolosi poiché raccolgono e trattengono sangue, primo veicolo di infezione se l’operatore si punge. La figura più a rischio, come detto, è quella degli infermieri. «Perché segue il paziente costantemente ed è colui che ha più degli altri a che fare con taglienti e pungenti come gli aghi per le flebo, per la terapia iniettiva e per i prelievi, bisturi, forbici e quanto altro per il cambio delle medicazioni – specifica Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale dei collegi degli infermieri (Ipasvi) -. Il 63 per cento degli incidenti coinvolgono aghi cavi, la metà dei quali pieni di sangue, il 19 per cento aghi pieni, il sette per cento bisturi».
I DATI ITALIANI – Per quanto riguarda la manipolazione di aghi e taglienti, i dati emersi dall’Osservatorio italiano evidenziano alcune criticità: due infermieri su tre ammettono di mettere in pratica almeno un comportamento che li mette a rischio di incidenti per puntura o taglio, mentre un terzo «reincappuccia» gli aghi usati (manovra proibita dal 1990). Anche lo smaltimento dei dispositivi contaminati, in quattro casi su dieci, avviene in contenitori impropri. Segno che, per dirla con le parole di De Carli, «gli operatori sanitari antepongono spesso la sicurezza del paziente alla loro. Fornire dispositivi più sicuri per le procedure a rischio e per lo smaltimento è necessario, ma non sufficiente. Occorre operare un cambiamento culturale». Oggi la necessità da parte degli ospedali di contenere la spesa mette spesso la struttura a rischio di dover sostenere un domani costi ben più elevati per la gestione degli incidenti professionali. «Con l’adozione di opportuni piani di prevenzione, formazione e introduzione dei dispositivi sicuri, si potrebbero evitare fino a cinquantatremila incidenti a rischio biologico, che equivalgono a sedicimila giornate di malattia e a oltre 550mila ore di lavoro perse. Ogni anno, in Italiam vengono spesi almeno 36 milioni di euro per far fronte alle conseguenze delle ferite accidentali da aghi cavi».
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