Enrique Hausermann (presidente Assogenerici) ed Emilio Stefanelli (vicepresidente Farmindustria): due interlocutori che partono da posizioni opposte.
La contesa, secondo chi li produce, si gioca sul piano dialettico. Per chi si trova a dover fronteggiarne l’ascesa, invece, la questione è più sostanziale e fa riferimento alle leggi che regolamentano il mercato. Per chiarire le opportunità di impiego dei farmaci generici – scaduto il brevetto ventennale, la legge consente ad altre aziende di produrre, fabbricare e vendere, previa autorizzazione dell’Agenzia Italiana del Farmaco, un medicinale che abbia efficacia e sicurezza consolidate -, Wisesociety.it ha interpellato le associazioni di categoria: Assogenerici e Farmindustria. Stesse domande per due interlocutori che partono da posizioni opposte: Enrique Hausermann (presidente Assogenerici) ed Emilio Stefanelli (vicepresidente Farmindustria).
Quali differenze ci sono tra i farmaci generici e quelli griffati?
Hausermann: «Il farmaco equivalente è tale sotto ogni profilo a quello griffato: deve avere lo stesso principio attivo nella medesima dose, la stessa forma farmaceutica, le medesime vie di somministrazione e indicazioni terapeutiche. Le uniche differenze riguardano il nome e il prezzo. Il farmaco equivalente deve riportare il nome del principio attivo più quello dell’azienda che lo produce. Quanto al costo, invece, i medicinali equivalenti costano come minimo il 20% in meno rispetto a quelli di marca. Chi chiede l’autorizzazione per un medicinale equivalente può praticare prezzi molto competitivi rispetto all’azienda titolare del prodotto di marca perché non deve investire risorse nella ricerca di un nuovo principio attivo. Ma gli standard di qualità e sicurezza dei farmaci equivalenti sono assolutamente garantiti, una volta ottenuta l’autorizzazione all’immissione in commercio».
Stefanelli: «Il farmaco “brandizzato” ha sostenuto prove di efficacia che invece mancano per il corrispettivo equivalente. Sulla base di una uguaglianza del principio attivo, della forma farmaceutica, della dose e della via di somministrazione, si presuppone che anche l’effetto sia identico. Ma i pazienti, soprattutto chi soffre di malattie croniche, dovrebbero evitare il passaggio da un prodotto all’altro».
Possiamo definire un farmaco generico “uguale” a uno “brandizzato”?
Hausermann: «Si sente dire che non siano uguali perché cambiano gli eccipienti: niente di più sbagliato. Questi, infatti, non cambiano quasi mai tra i farmaci di marca e corrispettivi generici. In caso di allergia o intolleranza a uno di essi, il paziente non può utilizzare tanto l’uno quanto l’altro. I test richiesti per l’autorizzazione all’immissione in commercio di un farmaco equivalente vengono fatti sul prodotto finito, che quegli eccipienti contiene. Se dimostrano che l’efficacia terapeutica, la potenza d’azione, il tempo di comparsa dell’effetto e la sua durata, nonché gli effetti collaterali e la loro incidenza sono identici, ogni preoccupazione diventa priva di fondamento».
Stefanelli: «Chi afferma questo, sbaglia. Ben venga la competizione, una volta che è scaduto un brevetto. Ma da qui ad affermare l’uguaglianza in farmacia ce ne passa. La bioequivalenza, che è il parametro che misura la capacità di rilascio del principio attivo con stesse modalità, frequenza e concentrazione, oscilla in un intervallo, per eccesso o per difetto, massimo del 20%. Ecco perché non è corretto definire i due prodotti identici».
Per quale motivo c’è una evidente differenza di prezzo?
Hausermann: «L’azienda che produce il farmaco di marca, con la copertura brevettuale del prodotto, acquisisce il diritto di poter commercializzarlo in esclusiva, per un certo periodo di tempo. Così recupera i costi di ricerca e sviluppo. Allo scadere di questo, decade il diritto esclusivo di proprietà intellettuale e altre aziende farmaceutiche possono produrre e vendere farmaci contenenti lo stesso principio attivo, senza ripetere gli studi fatti nella fase iniziale. È questo ridotto investimento economico a far calare i prezzi del prodotto finito: almeno del 20%, ma in realtà la media del risparmio si attesta sul 60%. Così lo Stato può investire queste risorse per migliorare la qualità della vita dei cittadini favorendo un maggior accesso alle cure per una più ampia fascia di popolazione».
Stefanelli: «La differenza non è mai più superiore a due euro. Una volta decaduto il brevetto, infatti, anche le aziende che lo detenevano possono ridurre il prezzo del prodotto per diventare più competitive. E a colmare il delta, per i farmaci rimborsabili, non è mai il Sistema Sanitario Nazionale, ma il paziente. Se un generico costa 9 euro e il corrispettivo di marca 11, lo Stato sosterrà sempre la stessa spesa: pari a 9 euro, con i restanti due a carico del cittadino che ha voluto dar fiducia al farmaco che conosce da più tempo. Ecco perché, da parte delle istituzioni, non vi è ragione per spingere gli equivalenti».
Ci sono dei rischi se si cambia farmaco, da “branded” a generico, una volta che la terapia è stata iniziata?
Hausermann: «Non vi sono evidenze di rischi per la salute connessi al cosiddetto “switch” fra generico e “brand”. L’effetto di un farmaco dipende dalle caratteristiche fisiche di un paziente. Cambiare potrebbe essere dannoso per alcuni soggetti, ma questo vale per il passaggio da brand a generico, ma anche da un farmaco di marca a un altro. C’è un apposito monitoraggio da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco sugli eventi avversi dei farmaci: finora non vi sono casi evidenti di danni derivanti dal passaggio fra un farmaco di marca e uno generico».
Stefanelli: «Il salto da un farmaco all’altro non dovrebbe mai avvenire: a prescindere dall’origine del prodotto che si abbandona. Al momento non ci sono dati che evidenzino controindicazioni specifiche, ma nel passaggio da un generico all’altro viene meno la dimostrazione della bioequivalenza, valutata soltanto rispetto tra il singolo equivalente e il farmaco di partenza. Dunque per opportunità, per facilità di controllo da parte del medico e per la comodità del paziente, questo “switch” non dovrebbe essere agevolato. Ma qui entriamo in un discorso più ampio. Noi siamo favorevoli alla competizione e all’introduzione sul mercato dei generici, che contribuiscono a far abbassare i prezzi. Ma il confronto deve avvenire di fronte al medico e non in farmacia. È lo specialista, e non il farmacista, il “driver” di questa sfida, chiamato a rassicurare il paziente. Se il medico prescrive il generico, il paziente si sente legittimato ad acquistarlo. Ma ciò accade di rado, perché le aziende che producono i generici non vanno quasi mai negli studi medici perché prediligono le farmacie. Così il cittadino matura l’idea di un conflitto puramente commerciale».
Quali sono le regioni più virtuose nel consumo di farmaci generici?
Hausermann: «Al Nord il loro utilizzo è ben al di sopra della media nazionale, con la Lombardia e l’Emilia Romagna in vetta alla graduatoria dei consumi. C’è da lavorare, invece, al Sud. Qui, soprattutto in Basilicata e Campania, il loro utilizzo stenta a decollare».
Stefanelli: «Al Nord le campagne di diffusione dei generici attecchiscono più facilmente. In generale, il loro giro di affari è in ascesa. Tra le prime dieci aziende farmaceutiche italiane, ve ne sono cinque che lavorano con i generici: sono Teva, Mailand, Sandoz, Dop Generici ed EuroGenerici. Mentre il mercato è in decremento, loro fanno registrare crescite tra l’8% e il 12%. La verità è sotto gli occhi di tutti: i farmaci generici sono entrati prepotentemente sul mercato e stanno continuando a erodere quote di fatturato al “brand”».