Wise Society : E se l’Ebola avesse la pelle bianca?

E se l’Ebola avesse la pelle bianca?

di Mariella Caruso
1 Giugno 2015

Gino Strada e Fabrizio Pulvirenti di Emergency raccontano la malattia. Tra ipocrisia e terapia

«L’epidemia di Ebola è finita, ci sono soltanto alcuni casi sporadici. La Liberia è stata dichiarata liberata, Sierra Leone e Guinea lo saranno presto». A dirlo è Gino Strada di Emergency, impegnatosi in prima persona con i medici dell’associazione da lui fondata, nelle zone colpite di recente dall’epidemia che ha interessato tre paesi africani con 26.000 contagi ufficiali e circa 11.000 morti.

Uomo di grande concretezza e con pochi peli sulla lingua, Strada, intervenendo alla terza edizione del Wired Nex Fest, ha parlato della “doppia morale” utilizzata per curare gli africani malati e i pochi pazienti occidentali che hanno contratto la malattia. «I farmaci disponibili per gli occidentali non sono quelli a disposizione per l’Africa – ha sottolineato Strada -. Caso mai in Africa si va a fare la sperimentazione dei farmaci che, se poi si rivelano validi, vengono utilizzati in Occidente». Non è stato così per Fabrizio Pulvirenti, l’unico italiano a contrarre il virus. Il medico siciliano, volontario di Emergency, è stato contagiato durante il suo servizio al Centro per la cura di Goderich in Sierra Leone. «Sono convinto che a salvarmi la vita, più dei farmaci sia stato il ricorso alla terapia intensiva più che i farmaci sperimentali che mi sono stati somministrati. La terapia intensiva, infatti, ha permesso il ripristino dei fluidi oltre a garantire l’assistenza alle funzioni vitali e l’aiuto respiratorio», ha raccontato Pulvirenti, a margine del suo intervento al Wired Next Fest. Naturalmente, però, le condizioni dei centri di assistenza sono diverse rispetto a quelle degli ospedali occidentali. «Io stavo in un stanza in muratura, con tanti medici a curarmi. In Africa i malati di ebola li assistevamo nelle tende», ha spiegato Pulvirenti. «Sarebbe molto più umano cominciare a trattare tutte le persone, a partire da quelle più svantaggiate, come noi vorremmo essere trattati», riflette l’infettivologo siciliano invitando tutti i medici a fare volontariato. «Vorrei incoraggiare tutti i medici ad aiutare: io ho lavorato in quattro ospedali diversi di Emergency, anche se a forgiarmi di più è stata l’esperienza africana – continua -. Una cosa che noi medici disimpariamo molto presto è che il paziente non necessita solo della cura, ma di qualcuno che si prenda cura di lui. Un atteggiamento importante, dovunque ci sia un malato, tanto quanto la cura che si somministra». Per questo Pulvirenti ha già dato disponibilità a partire per un nuovo periodo di volontariato. «Ho dato la mia disponibilità lo scorso aprile, non appena mi sono ripreso. «A spingermi è la mia passione per la medicina e quella per il genere umano – dice -. Inoltre per un infettivologo trovarsi faccia a faccia con una malattia studiata soltanto sui libri è, insieme una sfida umana e professionale. Però, nel mio prossimo impegno per Emergency non dovrò curare contagiati dall’ebola perché, a quanto pare, a fine maggio in assenza di una recrudescenza della malattia, il Centro per la cura di Goderich sarà chiuso». E su ebola, sia l’infettivologo sia Gino Strada, attaccano chi instilla la paura che l’epidemia possa mai arrivare in Italia attraverso i barconi dei disperati. «È vero i migranti possono avere in corso alcune malattie, ma sicuramente non l’ebola – chiarisce Pulvirenti -. Possono arrivare ectoparassitosi come la scabbia, e nessuno muore di scabbia. Potrebbe arrivare anche qualche ammalato di tubercolosi». «Soltanto un cretino può pensare che un malato di ebola si possa fare un viaggio su un barcone – rincara Strada -. Non mi pare che sia quello il rischio». Ma, visto che i migranti continuano ad arrivare, «sarebbe importante –conclude Pulvirenti – che lì dove arrivano ci sia una frontiera infettivologica. Dell’attivazione del reparto di malattie infettive ad Agrigento, che sulla carta esiste già, ho già parlato anche con il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin». Di pari passo, però, occorre anche lavorare sulla paura che, spesso, porta a trattare gli ammalati come si faceva con gli appestati del Medioevo. «Io sono un infettivologo e so bene cosa sia la paura del contagio. Sono cresciuto come medico nei primi anni dell’epidemia di Aids – conclude Pulvirenti -. In quel periodo erano in molti a non volersi avvicinare ai malati. Anche tra gli operatori sanitari c’era un’autoselezione. Lo stesso, a maggior ragione, capitava nella società: essere sieropositivo corrispondeva ad appiccicarsi una targhetta rossa. Invece, ora come allora, la chiave dell’accettazione di tutte le malattie è la conoscenza. Quando si conosce non si ha paura. E sarebbe umano cominciare a trattare le persone svantaggiate come noi vorremmo essere trattati. E l’attenzione sul mio caso di Ebola non fa testo: io sono diventato un modello solo perché sono bianco, avessi avuto la pelle nera nessuno mi avrebbe prestato attenzione».

Twitter @mariellacaruso

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