Costa troppo poco per essere vero. Eppure è così: sono sufficienti pochi euro per riempirsi l'armadio di vestiti. Il prezzo da pagare è però molto più alto del denaro che esce dal nostro portafogli. E ora in tanti vogliono vederci chiaro
Trendy e accessibile sono due parole che hanno segnato il successo e la rapida ascesa delle piattaforme di fast fashion e moda usa e getta come Shein e Temu: i colossi cinesi della moda a basso costo che, ancor di più dei marchi più noti della fast fashion hanno abbassato i prezzi e reso ancora più “veloce” il ciclo di vita e di distruzione dei capi. Ma se questi brand richiamano nei consumatori l’idea del tutto e subito, è abbastanza chiaro che il costo di questa “qualità” a prezzi super competitivi e di rapido accesso debba essere probabilmente a scapito di qualcuno o qualcosa: dell’ambiente, della sicurezza del consumatore e dei diritti umani. E’ inutile girarci intorno, la moda a buon mercato delle piattaforme di fast fashion e ultra fast fashion è nel mirino proprio perché viene considerata tossica, pericolosa, e anti-etica. Per questo ci sono sempre più richieste di attenzione e di monitoraggio da parte di enti sia americani sia europei.
Le indagini e i test sui capi di Shein e Temu
La Consumer Product Safety Commission (CPSC) degli Stati Uniti, agenzia governativa incaricata di garantire la sicurezza dei prodotti in commercio, ad esempio, ha recentemente puntato l’attenzione sulle due già citate piattaforme di fast fashion cinesi per chiederne la valutazione e per determinare se queste aziende, che si affidano a fornitori esteri, rispettino o meno gli obblighi nei confronti della legislazione americana.
L’indagine mira a chiarire, infatti, se il risparmio economico nasca da compromessi sulla sicurezza degli articoli. L’obiettivo è capire più nel dettaglio come operano questi siti che spesso utilizzano spedizioni dirette a basso costo dette anche “de minimis”.
In risposta all’annuncio della valutazione statunitense, Shein ha dichiarato che la sicurezza dei clienti è una priorità assoluta mentre Temu ha affermato che collaborerà con le indagini visto che rispetta tutti gli standard di sicurezza).
I due brand non sono tuttavia attenzionate solo negli USA. Dopo le segnalazione di tante associazioni (come ad esempio Greenpeace che ha rivelato come troppi prodotti venduti dalle piattaforme cinesi contengano sostanze tossiche dannose per chi le indossa), anche il sito tedesco Oko-Test ha realizzato un test sui prodotti Shein. I test hanno dimostrato che solo un terzo degli articoli esaminati riesce ad arrivare al voto di sufficiente o adeguato, mentre per tutti gli altri si parla di prodotti scarsi o decisamente inadeguati. E poi, ci sono stati casi di vestiti che rilasciano antimonio tossico e di tracce di dimetilformammide o altre sostanze che danneggiano la salute dell’uomo. Insomma, i test, in alcuni casi, hanno mostrato che il contenuto di ftalati vietati supera di 15 volte il limite della direttiva europea REACH.
L’impatto di Shein, Temu e delle altre piattaforme di moda “veloce”
Insomma, sebbene Shein e Temu offrano, a prima vista, moda accessibile e trendy, è importante mantenere il senso critico ed essere consapevoli degli effetti a lungo termine delle proprie scelte di acquisto. Per una moda che ha a cuore ambiente e diritti umani sarebbe bene optare per un consumo più responsabile, che supporti marchi sostenibili e pratiche etiche che coinvolgano, magari, anche la moda circolare, il second-hand o il ricorso al “vintage” contribuendo così a creare un modello di acquisto più virtuoso.
Ma perché, oltre all’aspetto etico e al consumo critico, quando si parla di fast fashion si può addirittura parlare di pericolo e di moda tossica? Le ragioni sono tante e sono legate principalmente all’impatto ambientale, etico e sociale della fast fashion.
Fast fashion e consumismo
Innanzitutto questi due colossi cinesi marchi sono sicuramente rappresentativi dell’ultra fast fashion, un modello di business che produce grandi quantità di abbigliamento a bassissimo costo e che porta, quindi, a un’eccessiva produzione e al consumo di risorse naturali, contribuendo a un significativo impatto sulle risorse del pianeta. Inoltre, i capi di abbigliamento venduti sulle piattaforme di fast fashion Shein e Temu sono spesso di bassa qualità e progettati per una vita breve, incoraggiando i consumatori a comprare più frequentemente. Il ciclo di acquisto rapido e scarsa durata accentua ulteriormente il problema dello spreco alimentando una cultura di consumismo sfrenato.
L’impatto sull’ambiente
La produzione di abbigliamento usa e getta ha un impatto enorme sull’ambiente, contribuendo all’inquinamento dell’acqua e dell’aria, alla deforestazione e al cambiamento climatico. Non è da sottovalutare neanche l’aspetto dei rifiuti prodotti da questa industria: l’iper-produzione di vestiti crea spazzatura ed è emblematico il caso della discarica nel deserto di Atacama in Cile, dove giacciono abbandonate ben 40.000 tonnellate di vestiti. I materiali sintetici utilizzati, come il poliestere, possono impiegare centinaia di anni per degradarsi. L’industria della moda, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è una delle più inquinanti al mondo.
Etica del lavoro e salute del consumatore
Oltre l’ambiente c’è il fattore etico: le aziende della fast fashion e quindi anche le piattaforme di fast fashion sono spesso criticate per le pessime condizioni di lavoro nelle fabbriche, dove il personale può lavorare per lunghe ore in ambienti insicuri e senza diritti adeguati. Le pratiche di sfruttamento lavorativo, come paga bassa e mancanza di diritti, sono frequenti. E ovviamente, questi marchi raramente adottano pratiche sostenibili o trasparenti riguardo alla loro filiera produttiva. La mancanza di accortezza ambientale e l’assenza di impegni reali verso la sostenibilità rendono ancor più problematica la loro reputazione.
Non mancano questioni, come quelle sollevate dai test tedeschi e dall’indagine americana, che riguardano l’impatto sulla salute. Alcuni prodotti possono contenere sostanze chimiche tossiche, che possono risultare nocive sia per la salute dei consumatori e che dei lavoratori nelle fabbriche. Molti brand di fast fashion, infatti, si avvalgono di manodopera a basso costo, spesso in paesi in via di sviluppo. Le condizioni di lavoro in queste fabbriche sono spesso precarie e i lavoratori vengono sottopagati. Evitare la fast fashion significa anche sostenere condizioni di lavoro più eque e dignitose.
Maria Enza Giannetto