Secondo l'Eurostat le mamme italiane sono le più vecchie in Europa. E le cause della bassa fertilità non sono da attribuire solo alla crisi economica
La fertilità è in calo, così come il numero di figli per coppia: che in media non va oltre il valore di 1,7. Le famiglie europee sono sempre più piccole. Ma il limite inferiore raggiunto negli ultimi anni non è una novità assoluta. Anche nella prima parte del secolo scorso, infatti, la natalità decrebbe in maniera simile. Quasi una donna su quattro, cento anni fa, non aveva figli. C’era una differenza, però: in quel caso fu l’elevato numero di giovani uomini morti durante la Prima Guerra Mondiale a frenare l’espansione familiare.
LE MAMME ITALIANE SONO LE PIÙ «VECCHIE» TRA QUELLE EUROPEE – La notizia emerge dall’Istituto nazionale di studi demografici francese, che ha diffuso un rapporto sulla denatalità in Europa, facendo un raffronto anche col recente passato. S’è scoperta così più di un’analogia tra il secolo scorso e quello attuale, sebbene alla base di numeri paragonabili ci siano ragioni completamente diverse. Come evidenziano dai dati Eurostat, l’Italia registra un tasso di natalità tra i più bassi di Europa (1,37) e le mamme italiane sono le più vecchie (30,7 anni). Secondo Eurostat, nel 2014 l’età media delle donne che hanno partorito il primo figlio è 30,7 anni, la più alta d’Europa dove la media è invece 28,8. Le spagnole si avvicinano alle italiane facendo figli a 30,6 anni, le lussemburghesi a 30,2 e le greche a 30. Ma nel resto d’Europa le neomamme hanno meno di 30 anni. Le più giovani sono in Bulgaria (25,8), Romania (26,1), Lettonia (26,3), Estonia (26,6), Polonia (26,9), Lituania e Slovacchia (27). Complessivamente, nel 2015 nell’Unione Europea sono nati 5,1 milioni di bimbi, a fronte di 5,2 milioni di decessi. Dunque nel Vecchio Continente il tasso naturale di variazione della popolazione è leggermente negativo. Il rapporto francese ha svelato però alcune differenze tra i Paesi dell’area mediterranea e quelli dell’Europa dell’Est. In questi ultimi la pressione sociale a sposarsi prima e ad allargare la famiglia ha fatto sì che la crisi fosse meno avvertita, pur in presenza di condizioni socioeconomiche spesso meno vantaggiose rispetto a quelle che si rilevano in Italia, Francia, Spagna e Portogallo.
IN AUMENTO LE FAMIGLIE «UNIPERSONALI» – La voglia di indipendenza, il desiderio di autonomia e di appagamento professionale sono altri fattori che, abbinati alla crisi economica, hanno determinato un rapido incremento delle famiglie «unipersonali»: composte da single, neo separati, vedovi. Nel giro di pochi anni, questa «enclave» è passata dal costituire il 21,1 per cento del totale delle famiglie a rappresentarne una quota irrobustita di dieci punti percentuali, come certificato dall’annuario statistico dell’Istat 2016. Milano è alla classifica delle città che arruolano il maggior numero di famiglie con un solo componente. In dieci anni si è passati dal 38,7 al 45,6 per cento. Ovvero: quasi una famiglia su due. Il sistema del welfare italiano non incentiva la composizione di nuclei familiari ampi. Per vivere in una grande città è infatti necessario avere almeno due stipendi, se si vuole assicurare a un figlio l’asilo, l’attività sportiva e la pratica di un hobby. Se a ciò si sommano i costi della vita quotidiana, con l’affitto o l’acquisto di una casa in cima alla lista, diventa presto chiaro perché costruire una famiglia da zero in Italia – soprattutto in una città diversa da quella di origine – è molto più difficile di quanto si pensi.
QUANDO LA SCELTA E’ «FORZATA» – Alla base della flessione dei tassi di natalità c’è anche un aumento delle problematiche legate alla fertilità. È un circolo vizioso: più si aspetta per avere un figlio, maggiori sono le probabilità di scoprire in età più avanzata la presenza di problemi di salute che rendono più difficile il concepimento. Il quindici per cento delle coppie, secondo la Società Italiana di Andrologia, non riesce ad avere un figlio. E in almeno la metà dei casi è nell’uomo che c’è qualcosa che non va, anche se il carico di indagini e terapie grava più spesso sulla donna. Per prevenire, riconoscere e curare i disturbi maschili che possono portare a infertilità basta una visita dall’urologo andrologo e un test del liquido seminale, semplice e poco invasivo. Gli esperti sono concordi nell’affermare che se uno specialista della salute dell’uomo fosse presente in ogni centro di procreazione assistita, si potrebbero ridurre gli accessi ai centri, i costi delle cure per l’infertilità e migliorare i risultati delle procedure almeno del trenta per cento. «La fertilità di coppia è legata alla salute riproduttiva di entrambi i partner – afferma Alessandro Palmieri, urologo dell’Università Federico II di Napoli e presidente della Società Italiana di Andrologia -. Studiare solo le eventuali patologie femminili pregiudica la soluzione delle difficoltà di procreazione e soprattutto rende più spesso necessario il ricorso alle tecniche di fecondazione assistita, anche quando potrebbero essere evitate. Tutto ciò obbliga le donne a percorsi più impegnativi sia dal punto di vista medico sia psicologico, con un aumento della probabilità di complicanze e anche dei costi».
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