Si chiama "It’s my right, it’s my life" il progetto sui diritti umani attivato da Cospe e Edison in quattro comunità urbane del Cairo, particolarmente svantaggiate. Protagonisti i minori e le loro famiglie, da coinvolgere in attività di formazione e informazione. Per aumentare la loro consapevolezza e metterli in grado di difendersi da soli
Una forte campagna per i diritti umani in Egitto, dalla parte delle donne e dei bambini. È questo il senso del progetto It’s my right, it’s my life, promosso dall’associazione fiorentina Cospe (Cooperazione per lo sviluppo dei paesi emergenti che lavora in Egitto dal 1998, www.cospe.org) e dall’azienda Edison (impegnata a sostenere iniziative etiche e sostenibili in Italia e all’estero) in collaborazione con l’Ong egiziana New Vision Association for Development. Protagonisti i minori più svantaggiati, soprattutto diversamente abili, e le loro famiglie che vivono in quattro comunità periferiche del Cairo, tra povertà, analfabetismo e forte isolamento sociale. «In Egitto, come in molti altri Paesi del Mediterraneo, c’è spesso un quadro legislativo anche migliore del nostro per quanto riguarda i diritti della persona, ma che non viene applicato per motivi culturali», spiega Silvia Ricchieri responsabile Cospe in Egitto, «la gente non conosce il significato della parola “cittadinanza“, cioè l’insieme dei diritti e dei doveri di ciascuno, sia per ragioni storiche che attuali. Pochi sanno, per esempio che c’è una buona legge nazionale (Child Law o Carta dei bambini in vigore dal 15 giugno 2008) che vieta il lavoro minorile o le botte come punizione nelle scuole, perchè non viene nè fatta conoscere né applicata», continua Ricchieri. «La nostra scommessa, invece, è creare una cultura di cittadinanza all’interno della quale le norme che già ci sono vengano rese accessibili a tutti, soprattutto agli abitanti delle aree più svantaggiate della capitale egiziana, come i Governatorati di Helwa e “6 Ottobre”, dove la condizione di vita delle donne è ancora molto arretrata e i loro figli, soprattutte le femmine, sono del tutto esclusi da alcuni diritti fondamentali come l’istruzione, la salute, la non discriminazione».
Minori discriminati e analfabetismo diffuso
I dati parlano chiaro: in Egitto sono ancora troppi i bambini discriminati (circa 2 milioni di disabili), esposti al rischio di maltrattamenti e costretti a lavorare (circa 2 milioni e mezzo) nei campi o come venditori ambulanti e collaboratori domestici. Le bambine rischiano anche di più: abusi sessuali, mutilazione genitale, matrimoni precoci ed esclusione dall’istruzione (54 per cento delle ragazze tra i 13 e i 15 anni smette di studiare rispetto all’11 per cento dei ragazzi). Nelle zone più povere dell’Egitto e nei quartieri emarginati delle grandi città l’iscrizione a scuola (che sarebbe obbligatoria fino a 14 anni) è molto bassa contribuendo ad aumentare il numero degli analfabeti nel Paese (30 percento di cui 71 femminile).
Cosa prevede il progetto
Se si vogliono cambiare le cose bisogna partire dal basso e potenziare i servizi necessari. Per questo il progetto It’s my right, it’s my life, cofinanziato dal Ministero degli Affari Esteri e dalla Comunità Europea prevede il coinvolgimento diretto di circa 3500 bambini e la sensibilizzazione di altri 5000, la realizzazione di quattro centri/scuola (attrezzati anche per accogliere minori con necessità speciali) dove avviare la formazione di operatori in campo sanitario, socio-assistenziale, educativo, ma anche corsi per insegnanti e genitori che vogliano impegnarsi nella tutela e promozione dei diritti, e corsi di alfabetizzazione per donne. Non solo. L’idea più efficace è proprio quella di ribaltare la situazione dei giovanissimi partendo da loro stessi, stimolandoli e in-formandoli sui propri diritti perchè possano rivendicare quelle pari opportunità che lo Stato di fatto non mette in pratica. «Vogliamo promuovere piccoli “attivisti”, gruppi di bambini e ragazzi dai 10 ai 15 anni, che conoscano la Carta dei diritti e a loro volta informino i loro genitori, familiari e altri coetanei», aggiunge Silvia Ricchieri, «insomma mettere in piedi un movimento di opinione sul rispetto della cultura dei diritti, per far capire sempre meglio che se un medico pratica a una bambina la mutilazione dei genitali, per legge può finire in galera, ma solo se qualcuno lo denuncia, sapendo di poterlo fare».