Wise Society : Eravamo tre amici al bar….

Eravamo tre amici al bar….

di Gea Scancarello
29 Giugno 2010

Una serata tra ex compagni di università conclusa con un patto. Conquistare insieme la vetta del Kilimangiaro per festeggiare i cinquant'anni. Sei giorni di cammino in uno scenario naturale incontaminato. Tra mal di montagna, lacrime di gioia e una sensazione di benessere mai provata prima. Ecco il racconto di uno di loro

 

Testimonianza di Sergio Marini, ingegnere, 52 anni

 

Appassionato di montagna, per me il Kilimangiaro è sempre stato un obiettivo da raggiungere. In una serata di qualche anno fa con quattro amici ed ex compagni di università stringemmo un patto: al nostro cinquantesimo compleanno ci saremmo ritrovati per affrontare insieme questa avventura. Così è stato, anche se due non se la sono sentita e hanno desistito. Dopo alcuni mesi di allenamento siamo partiti in tre: Marco e Silvano e io e la cosa buffa è stata che all’inizio del percorso abbiamo incontrato un gruppo di americane che erano lì per la stessa ragione: celebrare una data importante con veri amici e condividere con loro un’esperienza forte e coinvolgente.

 

Sergio Marini, ingegnere

Dopo aver studiato i vari percorsi, abbiamo scelto la via “machame” più conosciuta come “whisky route “, più impegnativa e lunga della più nota “Marangu” detta anche “Coca Cola route”, ma molto affascinante per il bellissimo paesaggio e l’utilizzo di campi tendati. Il gruppo di spedizione era formato da 11 persone, tre guide e i portatori necessari per il trasporto di tende e viveri; con loro, a bordo di alcune jeep, abbiamo raggiunto la quota di 1700 metri, e da qui abbiamo iniziato la nostra ascesa: ogni giorno camminavamo da cinque a sette ore al giorno percorrendo da 700 a 1000 metri di dislivello. I primi due giorni non sono stati faticosi, il fisico reggeva bene e ci stavamo adeguando senza problemi ai nuovi ritmi della giornata: sveglia alle sei e poi in cammino, con una breve pausa pranzo, fino all’arrivo al campo dove verso le cinque veniva preparata la cena. Il buio calava molto presto e così alle 7 di sera eravamo già pronti per andare nelle nostre tende a riposare.

 

Il terzo giorno abbiamo affrontato la tappa più faticosa per raggiungere la quota di 4600 metri e poi ridiscendere a 3900: sembrava che tutto andasse bene, certamente eravamo più stanchi, ma ci sentivamo in grado di affrontare la vetta. Purtroppo arrivato al campo ho incominciato ad accusare mal di testa e nausea: erano i primi sintomi del mal di montagna. Marco e Silvano stavano bene e invece per me iniziava a diventare tutto più difficile.

Una sosta per la foto

Non riuscivo a dormire e non volevo mangiare né bere, un errore perché il rischio di disidratazione in queste condizioni, è altissimo. La guida si era accorta del mio cedimento e mi spronava a non mollare, continuando a ripetermi che dovevo resistere; quel confuso dolore che mi rivoltava lo stomaco e mi stringeva la testa in una morsa era causato dall’altitudine, molti ne soffrivano e mi ripeteva di non preoccuparmi. L’ultimo giorno dovevamo fare 1500 metri di dislivello. La partenza era fissata a mezzanotte per arrivare in vetta alle sei del mattino, in tempo per vedere l’alba, uno degli spettacoli più stupefacenti del mondo. Con una fatica che non posso descrivere, ho iniziato a salire, mancava l’aria. Ero concentrato solo sull’obiettivo. Sapevo che dovevo risparmiare al massimo ogni grammo di energia che mi era rimasto. La rarefazione dell’ossigeno rende il percorso estremamente difficile, facevo dieci passi e poi mi fermavo a respirare. Non sapevo a che punto fossi, andavo avanti con la testa che martellava e la sensazione di sfinimento che mi accompagnava. A un certo punto nel buio ho sentito le urla dei miei amici, battevano le mani, «dai Sergio ce l’hai fatta. Sei in cima». Sono stato scosso da un brivido interno che mi ha spinto con violenza le lacrime agli occhi. Ero arrivato in vetta. E mentre le luci dell’alba iniziavano a illuminare il cielo ho spaziato con lo sguardo davanti a me. In quel momento non ho più percepito dolore, confusione, sofferenza. Nulla. Tutto si è dissolto per lasciare spazio ad una forza dirompente, una sensazione rigeneratrice che non avevo mai provato fino a quel momento. Ho abbracciato i miei amici e compagni di questa straordinaria esperienza, sicuro che la condivisione di questa emozione ci avrebbe legato in modo speciale, per sempre. Insieme abbiamo iniziato la discesa per raggiungere il campo base a 1700 metri. E mentre a passo veloce divoravamo la terra, mi sentivo felice, di una felicità avvolgente, senza ombre. Una sensazione che non dimenticherò mai e che ha reso questa spedizione, la conquista più dura e allo stesso tempo esaltante della mia vita.

la vetta

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