Wise Society : Concessioni balneari: come funzionano e perché sono (sempre) un problema in Italia

Concessioni balneari: come funzionano e perché sono (sempre) un problema in Italia

di Valentina Neri
6 Agosto 2024

Sul tema si gioca da sempre una lunghissima battaglia politica e legale: se l’Unione europea spinge per la concorrenza, in Italia i rinnovi sono stati automatici per decenni. Ripercorriamo la storia con i suoi ultimi sviluppi

In Italia ci sono quei temi che periodicamente tornano sulle pagine dei giornali: tutto fa pensare che sia in arrivo una rivoluzione ma poi le settimane passano, i titoli si fanno sempre più piccoli fino a sparire e, alla fine, ci si rende conto del fatto che niente è cambiato. Un esempio tipico? Le concessioni balneari.

Spiaggia di monterosso alle cinqueterre

Spiaggia di Monterosso alle Cinque Terre – Foto di Kirk Fisher su Shutterstock

Cosa sono le concessioni balneari

Cominciamo dall’abc. Le spiagge sono un bene pubblico inalienabile: ciò significa che nessuno può comprarle, perché sono e restano di proprietà dello Stato. Se è così, allora, com’è possibile che gli stabilimenti occupino porzioni di spiaggia e impediscano di usufruirne a chi non è loro cliente?

Possono farlo perché hanno ottenuto le concessioni demaniali delle spiagge, presentando un’apposita richiesta all’ufficio regionale competente e fornendo tutte le garanzie richieste (come l’iscrizione al registro delle imprese e gli attestati di formazione specifici). In altre parole, lo Stato resta il proprietario delle spiagge ma i privati sono autorizzati a gestirle, traendone un ricavo economico. In cambio, pagano un canone demaniale.

Quante sono le concessioni balneari in Italia?

Non è semplice dare una risposta a questa domanda, poiché alcune sono regolamentate dallo Stato e altre dagli enti locali, con regole che variano di volta in volta. Il principio – comprensibile – è quello di far sì che le regole siano calibrate ad hoc sulla specificità del territorio, ma il lato negativo sta nella grande confusione e difficoltà ad avere un quadro preciso della situazione. Una ricerca commissionata a Nomisma dal Sindacato italiano balneari e Fipe-Confcommercio sostiene che le concessioni in Italia siano 26.313, di cui 15.414 a uso turistico-ricreativo. Le imprese balneari – marittime, lacustri e fluviali – sono 6.592 e in alta stagione danno lavoro a circa 60mila persone, di cui 43mila con un contratto da dipendenti.

Stabilimento balneare in Sardegna

Foto Shutterstock

Cosa prevede la direttiva Bolkestein

In origine, il Codice della navigazione del 1942 non indicava una durata specifica per le concessioni balneari: si limitava a dire che, in presenza di più candidati, bisognava privilegiare chi forniva le maggiori garanzie in termini di sicurezza e tutela. Nei fatti, quello che è successo è che le concessioni sono state rinnovate pressoché in automatico, a fronte di canoni che risultano irrisori se paragonati ai guadagni.

Il Corriere della Sera parla di entrate medie annue per lo Stato che superano di poco gli 8.500 euro a concessione. Come se non bastasse, il d.l. n.400 del 1993 ha introdotto il cosiddetto “diritto di insistenza”: in pratica, assegnava quasi in automatico la proroga delle concessioni balneari ai titolari preesistenti, fatta eccezione per motivazioni gravi e straordinarie.

Va da sé che un sistema simile penalizzi la concorrenza. Concorrenza che ci viene imposta anche dall’Unione europea. In particolar modo con la direttiva n.2006/123/CE, meglio nota come direttiva Bolkenstein, pensata per spronare la crescita del settore dei servizi, armonizzando le norme tra uno Stato e l’altro, semplificando la burocrazia ed eliminando gli ostacoli ai potenziali operatori, in particolar modo evitando che siano discriminati perché provengono da un altro Paese. Di conseguenza, anche le spiagge vanno assegnate a seguito di gare “aperte, pubbliche e basate su criteri non discriminatori, trasparenti e oggettivi”.

L’annosa questione della proroga delle concessioni balneari

Nonostante l’Italia abbia formalmente recepito la direttiva, i vari governi succedutisi nel corso degli anni non l’hanno mai applicata, rinnovando di volta in volta le concessioni balneari e costringendo la Commissione europea ad aprire varie procedure di infrazione. Di fatto, nessuna forza politica di maggioranza ha voluto alienarsi i favori della categoria dei balneari e di tutti i lavoratori che ruotano attorno a questo settore.

La battaglia giuridica e politica si gioca attorno al concetto di scarsità: la direttiva si applica infatti soltanto alle risorse “scarse”, cosa che ha spinto i governi ad avviare varie opere di mappatura (prolungando i tempi) per stabilire se le spiagge ricadessero in questa categoria. L’ultimo rinnovo automatico in ordine di tempo risale alla legge di bilancio approvata a dicembre 2022 dal governo di Giorgia Meloni, che proroga le concessioni fino alla fine del 2024, lasciando aperta la possibilità di allungarle di un anno.

Ma il Consiglio di Stato, il più alto grado della giustizia amministrativa, non è dello stesso parere. E con una sentenza del 30 aprile, in linea con le precedenti pronunce, ribadisce alcuni principi: le spiagge sono una risorsa scarsa (perché quelle realmente adatte al turismo sono solo una minima parte del totale) e dunque vanno messe a gara, applicando pienamente la direttiva Bolkestein. La proroga automatica fino al 31 dicembre 2024, dunque, va disapplicata. ù

Da allora, le varie amministrazioni si sono mosse in ordine sparso: se il Comune di Jesolo ha messo a gara le concessioni innescando una furiosa battaglia legale, la regione Calabria ha emanato una delibera in cui dichiara di non applicare la direttiva, perché soltanto una minoranza delle spiagge risulta assegnata.

Valentina Neri

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