Il cotone di Better Cotton, la principale iniziativa di sostenibilità del settore, proverrebbe anche dalle aree deforestate della savana del Cerrado. È quanto sostiene un’inchiesta di EarthSight.
Fashion crimes, crimini della moda. Si intitola così un’inchiesta della ong britannica EarthSight che ha avuto l’impatto di un terremoto nel settore dell’abbigliamento. Perché svela che il cotone Better Cotton, lo stesso usato per confezionare i vestiti di colossi come Zara e H&M, in realtà ha ben poco di sostenibile. È infatti coltivato nella savana del Cerrado, in Brasile, con conseguenze deleterie sull’ambiente e sui diritti umani.
Come funziona la filiera produttiva della moda
Per orientarsi in questa faccenda, la prima cosa da chiarire è che la filiera produttiva della moda è lunga, complessa e globalizzata. Il negozio e l’ecommerce di qualsiasi brand, in realtà, vendono prodotti che sono stati realizzati da qualcun altro. Tipicamente, il marchio noto al pubblico si occupa solo di design, logistica e marketing. La filiera prosegue poi con il confezionamento del capo finito (Tier 1), il taglio e ricamo del tessuto (Tier 2), la tessitura e tintura (Tier 3), la coltivazione o produzione della fibra tessile (Tier 4). Ciascuna di queste fasi è gestita da imprese diverse che sono, a loro volta, clienti e fornitrici di altre aziende. Più che a una catena, questo sistema assomiglia a una rete che attraversa i confini delle nazioni e, dunque, anche dei loro sistemi legislativi.
Lo scandalo del cotone Better Cotton
Come tutti gli altri grandi brand (di fast fashion e non solo), H&M e Zara acquistano i capi finiti da centinaia di imprese che hanno sede soprattutto in Asia. Andando a ricostruire i loro fornitori e subfornitori, gli investigatori di EartSight hanno scoperto che avevano a loro volta comprato il cotone di due grossi produttori brasiliani, SLC Agrícola e Grupo Horita. Un cotone che aveva l’etichetta di Better Cotton, una delle più importanti iniziative di sostenibilità al mondo per questa fibra. Ma, nonostante ciò, era legato a episodi di land grabbing, deforestazione illegale, violenza, violazioni dei diritti umani e corruzione.
Le insostenibili piantagioni di cotone nella savana del Cerrado
La savana del Cerrado è un ecosistema delicato e prezioso. Si estende su quasi un quarto della superficie di uno Stato immenso come il Brasile e ospita un terzo della sua biodiversità. Negli ultimi decenni, però, vaste aree sono state sacrificate per l’espansione delle monocolture agricole. La deforestazione continua tuttora. Tra il 2022 e il 2023 l’area deforestata in Amazzonia si è ridotta della metà, mentre nella savana del Cerrado è passata da 5.500 a 7.800 chilometri quadrati.
Sia Horita Group sia SLC Agrícola, cioè le due società che producono il cotone finito negli abiti di H&M e Zara, avrebbero un ruolo in questa deforestazione galoppante. Prima nel 2014 e poi nel 2020, l’agenzia per l’ambiente di Bahia ha identificato ampie aree (prima di 25mila ettari, poi di 11.700 ettari) che Horita avrebbe convertito a piantagioni di cotone senza avere le autorizzazioni. L’agenzia federale Ibama ha multato l’azienda più di venti volte nell’arco di un decennio, per un totale di 4,5 milioni di dollari di sanzioni. SLC Agrícola, da parte sua, negli ultimi 12 anni ha convertito almeno 40mila ettari di Cerrado in piantagioni. Ed è accusata di avere distrutto ampie porzioni di foresta anche dopo l’adozione della usa policy “deforestazione zero” nel 2021.
Oggi, proprio la perdita di habitat espone al rischio di estinzione quasi un quinto delle specie che vivono nel Cerrado. Se si tagliano gli alberi, si perde anche la loro capacità di sequestrare CO2: ogni anno l’impatto in termini di emissioni equivale a quello di 50 milioni di automobili. La coltivazione del cotone, da parte sua, richiede ingenti quantità di acqua e di pesticidi, mettendo ulteriormente sotto stress questo ecosistema già compromesso.
I problemi ambientali sono i più evidenti. Ma, scavando sotto la superficie, si scopre che le aree dove sorgono le piantagioni di cotone sono state pressoché tutte sottoposte a land grabbing. Cioè, di fatto, vendute alle aziende sfrattando i loro legittimi abitanti e lasciandoli privi di mezzi di sussistenza. Un fenomeno in cui la corruzione, la violenza e le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno.
I dubbi sulla credibilità dell’iniziativa Better Cotton
Com’è possibile, allora, che il cotone coltivato da Horita Group e SLC Agrícola nella savana del Cerrado fosse spacciato per “sostenibile”? Questa è la domanda che mette fortemente in dubbio la credibilità di Better Cotton, la più ampia iniziativa al mondo per la sostenibilità di questa fibra tessile. Per avere un’idea delle sue dimensioni, basti pensare che tra il 2021 e il 2022 il 22% della produzione globale di cotone aveva l’etichetta Better Cotton: 5,4 milioni di tonnellate su 25 milioni.
“Better Cotton in realtà non è una certificazione, ma un’iniziativa più ‘leggera’, senza schema accreditato”, spiega a Wise Society Francesca Rulli, fondatrice di 4sustainability, il sistema e marchio a cui centinaia di brand e imprese della filiera si affidano per attestare la propria adesione alla roadmap per la sostenibilità.
“In sostanza, Better Cotton nasce per raccogliere fondi per la conversione dei campi di cotone in chiave più sostenibile: ma a lungo non c’è stato nessun controllo on site né sulla tracciabilità dei materiali. Mi spiego meglio: fino a poco tempo fa, non assicurava che il prodotto finito andasse realmente a usare il cotone proveniente dai campi coltivati in modo organico o sostenibile. Peraltro, su questo lo schema era trasparente: non ha mai provato a spacciarsi per una certificazione con controllo on site e schema di tracciabilità. In un certo senso, per il mercato poteva sembrare la via più leggera, meno costosa e meno garantista”.
La replica di Better Cotton Initiative
“Abbiamo condotto un audit indipendente sulle questioni altamente preoccupanti sollevate che riguardano tre aziende agricole autorizzate da Better Cotton nello stato di Bahia in Brasile”, specifica la Better Cotton Initiative, promettendo di mettere a disposizione di Eartsight e dei propri membri un riepilogo dei risultati.
“Secondo le nostre procedure operative, se vi sono prove che le aziende agricole non rispettano i requisiti del Better Cotton Standard, le loro licenze verranno sospese o revocate. Durante tutto questo processo lavoreremo a stretto contatto con l’Associazione brasiliana dei coltivatori di cotone (ABRAPA), nostro partner in Brasile e proprietario del Protocollo brasiliano sul cotone responsabile, un programma nazionale riconosciuto come equivalente al Better Cotton’s Standard”, continua l’organizzazione.
La nota sottolinea come nel 2023 gli standard di Better Cotton siano stati aggiornati. Secondo l’inchiesta, però, questo non è ancora sufficiente. Rimarrebbero infatti macroscopici punti deboli relativi, per esempio, ai sistemi di tracciabilità, al tema della proprietà dei terreni, ai diritti e al consenso dei popoli indigeni.
Cambierà qualcosa con la CSDDD?
A livello normativo, qualcosa sta cambiando. Dopo un lunghissimo iter che più volte ha rischiato il totale fallimento, è in dirittura d’arrivo la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), cioè la direttiva europea che imporrà alle grandi imprese di vigilare sul rispetto dell’ambiente e dei diritti umani non solo all’interno dei propri stabilimenti e delle proprie operazioni, ma anche lungo tutta la loro catena di fornitura. Per il settore moda, invece, sarà del tutto ininfluente il nuovo regolamento “deforestazione zero”: si applica infatti soltanto a bovini, cacao, caffè, palma da olio, gomma, soia e legno e loro derivati.
“Sia le normative (come la CSDDD e il digital product passport) sia le buone pratiche del mercato vanno sempre più verso il controllo dei rischi e degli impatti delle filiere e verso la loro mitigazione, su tutti gli anelli della produzione”, conferma Francesca Rulli, che è anche autrice di Fashionisti consapevoli (edito da Flaccovio) e da poco ha contribuito a fondare Y Hub, la prima holding di servizi innovativi e piattaforme digitali per la tracciabilità e la sostenibilità nel settore moda.
“Forse l’aspetto più debole della CSDDD sta nel fatto che non chiede di arrivare fino al Tier 4, cioè fino all’allevamento o al campo. Lì si innestano, e sono molto interessanti, i vari sistemi di tracciabilità di prodotto. Per questo abbiamo creato un modello che ci permette di rilevare i rischi di filiera, monitorare le fabbriche, intercettare gli impatti delle maggiori variabili di sostenibilità e – ove possibile – agganciare tutto questo al singolo prodotto realizzato”.
“La materia è complessa”, conclude Rulli. “Un po’ per la scarsa conoscenza di argomenti così nuovi, un po’ perché manca la chiarezza sulle varie iniziative e un po’ per motivi economici, tanti vanno alla ricerca della soluzione più leggera. Questo però può creare danni in termini di reputazione e, oltretutto, incide molto poco in termini di impatto ambientale e sociale”.
Valentina Neri