Zygmunt Bauman aveva ragione. L’individualismo sta avendo la meglio e, come da copione, gioca oggi una guerra impari nei confronti del concetto di comunità. Eppure è proprio la collettività l’arma di cui avremmo più bisogno nel momento di stringente necessità che stiamo vivendo in questi giorni di emergenza. Il Coronavirus ha fatto chiaramente emergere la fragilità che questo sistema porta con sé.
Comunità VS individualismo: la guerra (impari) ai tempi del coronavirus
Il narcisismo che permea la nostra epoca nega l’evidenza e, complice un’informazione poco efficace, frammentata e “sciacallata”, ci allontana da qualsiasi obiettivo virtuoso che potrebbe farci raggiungere uno scopo comune.
In un’epoca in cui si dice tutto e il contrario di tutto è difficile farsi un’opinione, soprattutto per chi cerca una guida o precise norme di comportamento da seguire. Narcisistica, poi, è la mancanza di pensiero critico, che porta tutti a dispensare consigli ma non ad ascoltare chi ha reale conoscenza della materia. E i social media – baluardo estremo di pluralità – dal canto loro amplificano il fenomeno e creano disordine, dubbio, ansia, panico e insicurezza.
Ma è nel pieno dell’emergenza che il problema assume le dimensioni di una catastrofe, e ce ne stiamo accorgendo proprio in questi giorni, affrontando l’epidemia da COVID-19 direttamente sulla nostra pelle.
L’individualismo detta le nostre azioni fino a diventare la nostra “inviolabile” libertà personale. È l’individualismo ad aver portato centinaia di persone ad affollare l’ultimo treno che avrebbe collegato il nord al sud Italia, mettendo a rischio la vita di migliaia di persone. È l’individualismo che ci ha permesso di affollare le strade quando la cosa migliore da fare era limitare il più possibile gli spostamenti. Sono l’individualismo e la scarsa empatia a permetterci di pensare che se il Coronavirus disease colpisce maggiormente gli anziani, allora si tratta di un rischio trascurabile e che ci tocca da lontano.
La brutta notizia, però, è che il Coronavirus non ci tocca da lontano, anzi. La crescita esponenziale dei contagi piega il Sistema Sanitario Nazionale: chi lavora in prima linea è stremato e la sanità è al collasso. Eppure sorge spontanea una domanda: perché chi lavora in prima linea, mettendo a repentaglio la sua vita per salvare la nostra, dovrebbe continuare a farlo quando noi – in realtà – non facciamo concretamente nulla per metterci in salvo?
Coronavirus… e poi? Prove generali di apocalisse
Durante un’emergenza non dovrebbe esistere torto o ragione, bisognerebbe anzi seguire una strada comune e condivisa.
Eppure accade esattamente il contrario: ognuno vede nel prossimo un antagonista, un nemico da combattere, una persona a cui imporre la propria opinione e il proprio punto di vista. Viviamo schierati in tifoserie da stadio che non riescono a comunicare in modo costruttivo. Non a caso già in passato è stato detto che il mondo, attualmente, si divide in ottimisti disinformati e pessimisti informati, e i due gruppi non riescono a trovare un canale di comunicazione costruttivo.
È necessaria e auspicabile una transizione che ci permetta di arrivare a quello che si chiama ottimismo informato, capace poi di creare il cambiamento che ci serve per superare un problema contingente.
Perché nel pieno dell’emergenza da Coronavirus non ci rendiamo conto che, in realtà, c’è un altro mostro all’orizzonte. Il cambiamento climatico porterà con sé epidemie, migrazioni ed emergenze sociali, umane e sanitarie. E nel combattere il Coronavirus stiamo dando prova di scarsa lungimiranza. Ma possiamo imparare dai nostri errori: trasformiamo questo momento in un banco di prova per ritrovare quel senso di comunità che, in un futuro non troppo lontano, sarà indispensabile per combattere battaglie ancor più difficili e dure.
Serena Fogli