Disoccupazione, povertà, assenza di prospettive per le future generazioni stanno facendo salire la tensione sociale. C'è chi scende in piazza, chi sceglie la strada del “voto rivoluzionario”, chi si indigna sui social network. Per il filosofo Galimberti tutto questo non porterà a nulla e un futuro è possibile solo se saremo in grado di “decrescere” con saggezza
La crisi economica già da tempo ha spinto sociologi, filosofi ed economisti a interrogarsi su quello che ci aspetta nei prossimi anni. Si evidenzia che per la prima volta le generazioni future staranno peggio di quelle che le hanno precedute. Si parla ormai di una generazione perduta: i quarantenni che non riescono a sostentarsi con il proprio lavoro e non sembrano avere la forza per cambiare le cose. I trentenni sono anestetizzati, demotivati, depressi. I più giovani non hanno prospettive in un Paese dove il welfare è nelle mani delle famiglie e non dello Stato, ma andare all’estero basterà?
La gente perde il lavoro a cinquant’anni, le imprese chiudono e la situazione sembra fuori controllo. Il sistema attuale si è rivelato insostenibile ma nessuno si ribella anche se tutti si indignano. Sui social network si invoca una rivoluzione come unica palingenesi possibile sulla spinta della rabbia, della frustrazione e dell’insoddisfazione. Ne saremo capaci? Ne abbiamo parlato con il professor Umberto Galimberti, filosofo e grande osservatore della contemporaneità che lui interpreta sempre senza dimenticare la storia e le nostre radici culturali.
Professor Galimberti, perché non riusciamo a ribellarci a situazioni di palese ingiustizia?
Già Hegel diceva a questo proposito una cosa chiara: la rivoluzione può avvenire quando c’è un conflitto tra due volontà: quella del signore e quella del servo, quella del padrone e quella del suo sottoposto, di solito portatori di interessi contrapposti. Pensiamo al ’68 e all’aspro confronto fra grandi industriali e operai, solo per fare un esempio.
E oggi?
Oggi si verifica una situazione diversa e anomala: il servo e il signore si trovano dalla stessa parte della barricata e hanno come controparte il mercato, un’entità priva di volto e volontà, che si può esprimere con delle assi cartesiane mettendo da una parte l’offerta e dall’altra la domanda e nel loro incrocio il prezzo. Ma se tu hai a che fare con qualcosa di non identificabile con chi te la prendi? Con le agenzie di rating? Con il sistema della finanza di cui nessuno capisce niente? Ci è venuta a mancare la controparte. Non c’è nessuno con cui prendersela. È vero che Omero ha detto che Nessuno è sempre il nome di qualcuno ma questo qualcuno non si sa chi sia. I lavoratori non sanno contro chi devono scendere in piazza. E i giovani non riescono più a contrapporsi ai padri per trovare una propria identità dato che dipendono economicamente da loro. Le scuole e le università sono piene di precari cinquantenni. Alcuni Paesi come la Grecia e la Spagna sembrano più reattivi ma anche lì la gente si indigna e poi cosa fa? Cosa cambia? La rivoluzione avviene quando si tagliano teste e si cambia regime così come è successo nel passato con la rivoluzione francese o russa, più di recente con quella fascista. Se la rivoluzione si riduce allo scendere in piazza è puro folclore.
Che prospettive ci sono per le future generazioni?
Una generazione l’abbiamo già persa, quella che va dai 25 ai 40 anni: la pensione non l’avranno e sono destinati a sopravvivere di lavori saltuari. Non parliamo poi della successiva, ancora nebulosa e sostenuta in toto dai genitori. Il welfare non lo fa più lo Stato, lo fa la famiglia che è chiamata a svolgere un ruolo sempre più determinate per colpa dell’aggravarsi della crisi. Questi trentenni possono forse comprare casa, accendere un mutuo, sposarsi e fare dei figli? No. Quindi siamo di fronte a una generazione perduta e senza identità.
Ritiene possibile che questa identità possa costruirsi su a un’alleanza fra diverse generazioni invece che sulla loro contrapposizione?
Ma sono già super alleate: i genitori mantengono i figli e i figli erodono la ricchezza accumulata da nonni e genitori. Questa è la vera ricchezza italiana, non è mai stata pubblica ma familiare. Una volta esaurita anche questa non vedo come le future generazioni potranno mantenersi. Il discorso è molto ampio, non è solo generazionale. L’Occidente sta tramontando, deve tramontare: da questa consapevolezza si deve partire per comprendere tutte le implicazioni della crisi globale in atto. Il sistema è in equilibrio precario. Il problema è che noi occidentali che siamo il 18% della popolazione mondiale abbiamo bisogno dell’80% delle risorse della terra per mantenere il nostro attuale stato di benessere. È sufficiente che indiani o cinesi mangino una ciotola di riso in più perché noi si debba diminuire i consumi e il tenore di vita. La nobiltà aveva dei grandi castelli che dopo l’arrivo e l’affermazione della borghesia non ha più potuto abitare perché costavano troppo. Allo stesso modo i figli non riusciranno a mantenere le nostre case, che finora hanno rappresentato la nostra ricchezza. Occidente è una parola che vuol dire tramonto, ce l’ha scritto nel nome il suo destino.
Quindi non c’è speranza nel futuro?
La speranza appartiene al cristianesimo che ha sempre guardato il futuro come il tempo della salvezza: la scienza che è cristiana anch’essa lo guarda sotto il profilo del progresso, Marx lo guardava sotto quello della giustizia sociale e Freud sotto quello della guarigione. C’è un ottimismo di base che in una visione laica del mondo non è possibile. È il tempo del nichilismo. Il mondo così come lo conosciamo non ci sarà più
La nascita di un nuovo mondo potrebbe essere trainata dai nuovi valori che si stanno diffondendo nella coscienza collettiva? Il rispetto per l’ambiente, un nuovo senso di solidarietà, scelte di vita più consapevoli e sostenibili…
Sono tutte parole nobili che però alla fine ci dicono che dobbiamo regredire, spendere meno, consumare meno, abituarci a un basso tenore di vita. Siamo stati solidali quando eravamo poveri in canna.
È un po’ il concetto della decrescita…
Se riusciamo a decrescere con saggezza possiamo arrivare a una soluzione positiva. D’altra parte saremo costretti a farlo. Alla buona volontà credo poco, credo più alla costrizione. Dovremo diventare poveri e solidali, una prospettiva che noi “vecchi” già abbiamo conosciuto ma che la generazione di chi oggi ha quaranta anni nemmeno può immaginare. Potrebbe significare condividere gli spazi abitativi così come negli anni Cinquanta molte famiglie abitavano in un corridoio condividendo un solo bagno. Arriverà una fase di restrizioni, nell’edilizia così come nell’abbigliamento e nell’alimentazione. Non tutti ancora l’hanno capito anche perché la povertà tende a nascondersi. In Italia ci sono almeno sei milioni di poveri e non tutti si vedono perché la povertà non si identifica solo con la gente che chiede l’elemosina. Saremo tutti costretti a ridimensionarci. Tanto vale entrare in questa ottica perché qualsiasi atto rivoluzionario compiuto in piazza o nel segreto della cabina elettorale non potrà cambiare le cose. Il mercato se ne frega dei nostri atti rivoluzionari. Anche quando ci contrapponiamo allo status quo in realtà ci stiamo contrapponendo al mercato, alla finanza, a flussi di denaro che su Internet girano cinque volte di più rispetto a quello che produciamo materialmente. La rivoluzione è impossibile non perché è morto il comunismo o manca una vera sinistra, come qualcuno ancora crede, ma perché manca un nemico da combattere. L’unica via che vedo possibile è, dunque, quella di una decrescita obbligata.