Sei anni fa ha fondato Youth Action for Change. Con l'idea di creare un network tra i giovani dei Paesi in via di sviluppo e delle zone di guerra. Per offrire loro corsi online di formazione e uno strumento per scambiare informazioni . Una piattaforma di incontro per non essere più invisibili e senza voce. E per poter semplicemente tornare a vivere
A soli 28 anni si può già essere fondatrice e presidente di un’associazione che mette in comunicazione, grazie al web, giovani di tutto il mondo. E la notizia è che si può fare anche in Italia. Lo dimostra il lavoro svolto da Selene Biffi, una ragazza dalle idee molto chiare e con una gran voglia di fare, capo di un’organizzazione di volontari chiamata “Youth Action for Change”. Selene ha un curriculum ricco di esperienze in Italia e all’estero, tra cui uno stage all’Onu, e, in un certo senso, è figlia d’arte, visto che i genitori sono due comuni commercianti che però hanno costruito, esclusivamente con le loro forze. un ospedale a Benares, in India. Appartiene alla generazione né-né, né studio né lavoro, una massa di invisibili che non sembra attratto da nulla. E lei, così lontana da questa placida inerzia, un consiglio da dare ai suoi coetanei ce l’avrebbe: rimboccatevi le maniche.
Come è successo che una ragazza di poco più di vent’anni fonda un’associazione come Youth Action for Change?
L’idea è nata nel 2004 durante una seduta del Parlamento Internazionale della Gioventù organizzato da Oxfam (Oxford Commitee for Famine Relief, la più importante confederazione mondiale di ong che si occupa di lotta alla povertà ), dove ero stata selezionata sulla base di un’altra proposta: là mi sono resa conto che c’erano tanti ragazzi con buone idee – ma che non avevano conoscenze sufficienti per metterle in pratica – e tanti altri ragazzi che avevano le conoscenze ma non potevano trasmetterle efficacemente. Così ho pensato al portale come ponte tra giovani che vogliono attivarsi.
Perché solo giovani?
Perché secondo la Banca Mondiale il 62 percento della popolazione ha meno di 25 anni: il mondo è giovane, e i giovani hanno un enorme potenziale inesplorato. Anche noi di YAC siamo tutti giovani, ma bisogna ricordare che all’estero questa è la normalità, esistono associazioni con a capo ragazzi di 25 anni.
Quali azioni concrete promuove YAC?
Facciamo corsi online, campagne e networking con cui raggiungiamo migliaia di ragazzi in 120 paesi diversi, il 95 percento dei quali sono Paesi in via di sviluppo. Ci occupiamo di sviluppo sostenibile, diritti umani e delle donne, accesso alla salute e tanti altri temi. I corsi tenuti dai nostri esperti (in genere funzionari Onu o di altre organizzazioni internazionali) sono finalizzati alla realizzazione di azioni concrete. Gli studenti, gratuitamente, ricevono lezioni teoriche tramite e-mail e compiti pratici da fare a casa. Il compito finale è l’ideazione di un progetto da realizzare sul campo. Al termine del corso sullo sviluppo sostenibile, ad esempio, un ragazzo nigeriano sordomuto ha messo a frutto le nuove conoscenze per creare a Lagos una cooperativa per disabili che raccolgono rifiuti. L’ultima volta che lo abbiamo contattato ci ha raccontato che il governo locale lo stava aiutando ad avviare l’iniziativa.
Come usate le nuove tecnologie?
Per noi sono fondamentali. YAC è stata la prima organizzazione a livello mondiale – e per il momento l’unica a livello italiano – ad utilizzare la metodologia peer-to-peer, quella con cui ad esempio ci si scambiano i file mp3, per offrire ai giovani attività online totalmente gratuite. Il problema però è il digital divide: noi ci rivolgiamo a persone che abitano in paesi arretrati tecnologicamente, e quindi dobbiamo essere il più semplici possibili. Basti pensare che un ragazzo della Papua Nuova Guinea mi ha detto che deve fare un viaggio di 20 chilometri per trovare un collegamento internet, o che un altro di Timor Est paga 4 euro l’ora per collegarsi, poco meno della metà di uno stipendio.
Quali altre difficoltà incontrate?
Oltre all’accesso a internet nei Paesi in via di sviluppo, in Italia abbiamo altri due problemi. Il primo legato al fatto che da noi ancora non si è capito che le tecnologie possono avere un impatto sociale. Il secondo legato al fatto di essere giovani: nonostante YAC abbia sei anni e sia un’esperienza nata dal nulla e non sia succursale di nessun’altra, facciamo ancora fatica a essere presi sul serio dalle istituzioni.
… e intanto, però, sei stata recentemente premiata a New York dall’Onu per il progetto “Forgotten Diaries”.
E’ la prima piattaforma che dà voce ai giovani dei Paesi in guerra, dove ci sono conflitti dimenticati. Mettiamo in rete i blog dei ragazzi che raccontano la propria vita quotidiana. Inoltre facciamo dialogare giovani appartenenti a parti opposte, in conflitto. Ma poiché non vogliamo fare solo informazione, finanziamo progetti di sviluppo concreti e orientati alla pace. In questo momento, tra gli altri, finanziamo un progetto di teatro in Nepal che ha l’obiettivo di ridurre la distanza tra le caste.
Che idea ti sei fatta dei tuoi coetanei? Sono impegnati o si limitano ad aderire alle iniziative su Facebook?
Non è vero che siamo apatici, abbiamo entusiasmo e energia, solo che non sappiamo dove incanalarla. Gli stessi adulti ci dicono sempre che dobbiamo aspettare, e così finiamo per autolimitarci. Non basta aderire ad appelli, manifestare, bisogna inventare nuove iniziative. Io ho fatto così. Tanti mi scrivono dicendo che vogliono fare qualcosa ma che si sentono esclusi… io gli dico sempre “comincia a rimboccarti le maniche, e non cercare scuse per non farlo”.
I social media salveranno il mondo?
Sono fondamentali per l’informazione e per azioni come le denunce e le campagne. Ma sono solo un tassello. É l’azione concreta che è davvero necessaria.