Il docente esperto di rifiuti sottolinea come sia necessario intraprendere «una gestione dei rifiuti virtuosa avviando una transizione verso un’economia circolare, che richiede un cambiamento radicale per i nostri sistemi di produzione e di consumo
«Il rifiuto nasce come problema da gestire e ritenere che inizialmente non lo sia è sbagliato. Se, però, un prodotto viene concepito, progettato e realizzato secondo delle logiche che lo rendono recuperabile, allora, quando diventa rifiuto, nell’ambito di una visione di economia circolare, è davvero possibile pensarlo come risorsa».
Non ha dubbi Saverio Scarpellino, già docente di Istituzioni di economia politica e di Economia dello sviluppo presso la Sapienza – Università di Roma e autore del testo La parabola dei rifiuti. Da problema a risorsa, la sfida dell’economia circolare (Aracne editrice), nel quale sottolinea come sia necessario intraprendere «una gestione dei rifiuti virtuosa, che ne riduca l’impatto sull’ambiente, avviando, allo stesso tempo, una transizione verso un’economia circolare, che richiede un cambiamento radicale per i nostri sistemi di produzione e di consumo».
Dottor Scarpellino, da cosa nasce l’esigenza di un libro sulla gestione dei rifiuti?
Nasce dall’intento di chiarire alcuni punti sulle modalità che possono essere adottate per realizzare una gestione sostenibile dei nostri rifiuti. Lo sbocco dell’economia circolare non fa altro che rafforzare questa gestione sostenibile. Tuttavia, solo quando dai rifiuti si riuscirà a trarre il massimo delle loro potenzialità, si potrà davvero asserire di aver cambiato le caratteristiche del sistema produttivo.
Cosa è necessario fare per modificare questo sistema?
I rifiuti in economia rappresentano dei materiali che hanno un valore economico negativo: per i quali, cioè, chi li detiene deve pagare un prezzo a colui che li prende in carico per la gestione finale degli stessi. E ancora oggi è così. Tuttavia, alla luce di una serie di innovazioni che il sistema economico è chiamato a compiere, se i prodotti vengono concepiti, progettati e realizzati seguendo logiche legate alla circolarità e impiegando determinate materie prime, si può parlare di rifiuti che diano, come risultato, nuove risorse.
Ma per farlo, è necessario ripensare il procedimento già dalla fase della realizzazione del prodotto e non solo nella fase finale della gestione dei beni, quando questi ultimi sono diventati rifiuti. L’economia circolare, quindi, impone di rovesciare i criteri che hanno caratterizzato il nostro sistema lineare, a partire proprio dal concepimento e dalla realizzazione dei singoli prodotti.
Perché, pur essendo quella dell’economia circolare una tematica di largo respiro, in molti la relegano ancora ad una semplice questione ambientale, senza considerarne tutta la valenza di tipo industriale?
L’economia circolare rappresenta una questione di sviluppo tout court, nella direzione di uno sviluppo sostenibile, che non si dirime solo pensando all’esito della gestione dei rifiuti, ma rivedendo tutte le politiche industriali a livello generale. Solo riorganizzando il sistema produttivo e passando dalla logica lineare dalla quale siamo pervasi a quella circolare, per cui le risorse di domani devono essere attinte principalmente dai rifiuti di oggi, si potrà entrare in una nuova fase dell’economia.
Detto in soldoni: non basta che il cittadino comune faccia la differenziata per risolvere il problema dei rifiuti.
Esatto. Sarebbe facile pensare che per superare questo problema sia sufficiente soltanto il senso civico dei cittadini, chiamati a differenziare correttamente i rifiuti prodotti, coniugato all’efficienza delle aziende di igiene urbana che si occupano della raccolta.
È vero, nonostante la raccolta differenziata di qualità sia un presupposto fondamentale per effettuare il recupero di materia (a livello medio nazionale la percentuale di RD è ancora al di sotto degli obiettivi posti dalla legge, seppur in continua crescita), gli impianti da cui trarre la materia prima seconda sono fondamentali per realizzare alti livelli di riciclo. Il problema è che tali impianti risultano, almeno in alcune zone del Paese, ancora carenti.
Ha fatto cenno all’insufficienza degli impianti. Ci spieghi meglio, sono davvero così pochi?
In modo scorretto si è diffusa la convinzione che la raccolta differenziata e il riciclo siano concetti coincidenti. Invece la raccolta differenziata è soltanto il mezzo principale per addivenire al riciclo. Dopo la raccolta separata delle singole frazioni, quindi, comincia tutto un processo, più o meno complesso, volto a recuperare la materia prima seconda dalle frazioni differenziate. Per farlo, però, occorrono impianti di trasformazione dedicati, talvolta carenti nel nostro Paese, soprattutto al Sud. Il risultato è che anche alcuni comuni virtuosi, che differenziano correttamente, per far arrivare le frazioni separate agli impianti di recupero (si pensi per esempio alla frazione organica) sono costretti a trasportarle per tanti chilometri su gomma. Con un conseguente forte impatto sull’ambiente, oltre che un notevole esborso economico.
Perché non si corre ai ripari costruendo altri impianti? È solo un problema di tipo industriale?
No. È senz’altro un problema di tipo politico e sociale. Talvolta, a livello locale, l’impiantistica di trattamento dei rifiuti è avversata dal dilagare del fenomeno nimby (not in my back yard, ndr). Ad ostacolare il riciclo di alcune categorie di rifiuti, poi, ci sono anche problemi di tipo autorizzativo. A livello generale, tali ostacoli potrebbero essere superati da decreti ministeriali ad hoc sulla cessazione di alcune tipologie di rifiuti in seguito ad uno specifico trattamento (così detti decreti end of waste), che invece stentano ad essere emanati.
A questa carenza, nel corso degli anni, hanno sopperito le singole regioni, autorizzando determinati impianti di riciclo a trasformare i rifiuti trattati in nuova materia, pronta per essere impiegata in successivi cicli della produzione. Oggi però, una sentenza del Consiglio di Stato del febbraio 2018 inibisce tale possibilità alle regioni, stabilendo che il potere di definire la cessazione della qualifica dei rifiuti compete soltanto ad organismi della UE, oppure a quelli di rango nazionale. Una sentenza che dunque rischia di bloccare molte attività di riciclo, creando grandi difficoltà in questo settore. Criticità che un recente intervento normativo contenuto nella legge di conversione del Decreto “Sblocca cantieri” non ha per niente risolto.
Dottor Scarpellino, lei è romano, non si può non far cenno al problema dei rifiuti nella Capitale. Cosa è successo all’inizio dell’estate?
Si è verificata la coincidenza negativa di due fattori, che hanno amplificato di molto la carenza di capacità di trattamento della frazione dei rifiuti indifferenziati di cui soffre il territorio di Roma: da una parte l’incendio che a dicembre 2018 ha distrutto un impianto di TMB (trattamento meccanico biologico) dell’azienda di igiene urbana della città, la cui capacità di trattamento non è stata rimpiazzata da nessun altro impianto sul territorio comunale; dall’altro, l’entrata in manutenzione a giugno scorso dei due impianti di TMB in capo all’operatore privato Colari, che hanno ridotto la loro capacità di trattamento giornaliera di 500 tonnellate.
Venendo meno questo duplice sbocco per i rifiuti indifferenziati, se ne è rallentata conseguentemente la raccolta, con gli effetti negativi che ne sono scaturiti. A risolvere la criticità è intervenuta un’ordinanza regionale, che ha imposto a tutti gli altri impianti di TMB presenti nella regione Lazio di accogliere per il trattamento, fino al limite della loro capacità, i rifiuti indifferenziati della Capitale che non si riesce a trattare negli impianti cittadini.
Da tanti punti di vista sembra che non ci sia di che stare allegri. Come se ne viene fuori?
Per quanto riguarda la quotidianità, il cittadino comune deve cercare di ridurre i propri rifiuti, nella convinzione che “il miglior rifiuto da gestire è sempre quello evitato”. Noi, come cittadini, possiamo dare un importante contributo, scegliendo prodotti poco impattanti; riducendo l’acquisto di beni eccessivamente imballati; contenendo il consumo di prodotti “usa e getta”; separando correttamente tutte le frazioni da avviare a recupero.
Dopodiché, però, il nostro dovere di cittadini è terminato e deve, necessariamente, entrare in campo la programmazione politica, con una strategia seria di economia circolare: che non veda i rifiuti solo come una questione di igiene urbana, ma ne consideri la gestione soprattutto nell’ottica delle potenzialità di recupero di materia o almeno di recupero energetico.
Per questo motivo, quindi, occorre un’impiantistica adeguata, che invece in alcuni territori del nostro Paese, come abbiamo visto, risulta ancora molto carente. Anche per gestire correttamente la quota di rifiuti che non è sottoponibile a recupero di materia. Per la quale, in linea con la gerarchia europea, va assicurata una capacità impiantistica sufficiente almeno per il recupero energetico. Consapevoli che lo smaltimento in discarica dovrà riguardare un quantitativo progressivamente decrescente di rifiuti. Che le ultime direttive sull’economia circolare, varate a luglio 2018, impongono di contenere sotto il 10% dei rifiuti da gestire, entro il 2035.