La docente dell'università di Exeter in Gran Bretagna, sostiene che "i dati non vengono prodotti, ma sono il risultato delle scelte adottate dai singoli gruppi di ricerca".
Lo tsunami di informazioni biologiche è oggigiorno la sfida delle sfide, nel campo della ricerca scientifica. Quell’insieme di numeri che genericamente definiamo big data, impone infatti un radicale cambiamento d’approccio. È come se la rivoluzione fosse dietro la porta di casa e noi non ce ne fossimo ancora accorti. I ruoli tradizionali stanno saltando e stanno scompaginando anche le certezze finora acquisite dagli scienziati. Più che il loro operato, oggi al centro di tutto ci sono i dati. La rivoluzione, dunque, è prima di tutto concettuale. «I dati non vengono prodotti, ma sono il risultato delle scelte adottate dai singoli gruppi di ricerca», ha spiegato Sabina Leonelli, docente di filosofia e storia della scienza all’Università di Exeter (Gran Bretagna), intervenendo a «The Future of Science», la conferenza mondiale organizzata per il dodicesimo anno dalle Fondazioni Umberto Veronesi, Giorgio Cini e Silvio Tronchetti Provera. Un concetto che, tradotto nella pratica, equivale al prodotto finale di diverse ipotesi e modelli sviluppati dai ricercatori. «I dati non parlano da soli, ma occorre capire come farli parlare». A Leonelli l’Unione Europea ha affidato un grant da oltre un milione di euro per analizzare l’impatto dei big data sulla ricerca.
Quali conseguenze può avere una simile innovazione sulla ricerca scientifica?
L’impatto è già notevole, specialmente nelle scienze mediche e biologiche, caratterizzate da una lunga storia di ricerca che si protrae da diversi secoli. In tutto questo tempo, però, i diversi campi sono stati tenuti sempre ben separati. I ricercatori si sono specializzati nello studio di organismi diversi, manifestazioni e malattie differenti. In più la ricerca è sempre stata condotta a livelli eterogenei, inquadrati alla stregua di compartimenti stagni: le molecole, le cellule e i tessuti. Quello che si può fare con i big data è mettere assieme le informazioni provenienti da branche diverse e cercare la giusta sintesi. I benefici potrebbero riguardare diverse discipline, a partire dalla medicina.
Può farci qualche esempio concreto di applicazione dei big-data in medicina?
Uno dei filoni più battuti al momento riguarda la possibilità di associare i dati provenienti dalle ricerche condotte in ambito oncologico con quelle riguardanti lo studio del genoma umano. In questo modo si può cercare di capire come il nostro organismo cambi nel corso della malattia, in ragione delle variazioni che riguardano l’ambiente esterno: la dieta, l’ambiente in cui si vive, lo stile di vita che si segue.
Come si fa in modo che tanti dati possano generare ricadute concrete all’interno della popolazione?
Il possesso di tanti dati, seppur tecnicamente accessibili, non basta. Servono professionisti
che siano in grado di analizzarli e metterli a disposizione dei ricercatori, in modo da metterli nelle condizioni di trovare le informazioni che cercano. Il mestiere del curatore dei dati è ancora sconosciuto in Italia, ma sarà molto importante nei prossimi anni.
In che modo il continuo ricorso alla tecnologia può cambiare il rapporto tra la scienza e la società?
Molti dei dati che vengono usati possono venire dalla comunità scientifica, ma anche dal resto della società, che diventa così soggetto attivo nel campo della ricerca. Questo aspetto ha un enorme potenziale di innovazione, anche se nasconde anche alcuni problemi: di natura etica e di sicurezza, in primis. Penso ai dati che inseriamo ogni giorno nelle cosiddette healthy-apps, che mettono in rete alcune variabili in grado di riportare il nostro stato di salute, ma che possono pure essere di grande utilità per i medici. Se questa consapevolezza cresce a livello sociale, l’utilizzo delle tecnologie può davvero trasformare il rapporto tra scienza e società».
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