Wise Society : Paolo Rumiz: viaggiare per imparare a vivere
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Paolo Rumiz: viaggiare per imparare a vivere

di di Monica Onore
18 Ottobre 2010

Da anni scrive reportage di viaggio ma è stato anche inviato di guerra. Racconta di luoghi meno conosciuti e persone autentiche. Un lavoro che è diventato strumento di conoscenza. Per capire quanto valore ci sia nell'incontro con gli altri. E quanto sia importante saper accettare l'imprevisto. Per uscire dagli schemi di una vita blindata, che alla fine cancella ogni apertura mentale

Paolo Rumiz, giornalistaIl viaggio non è a portata soltanto di chi ha denaro, di chi ha tempo. Ognuno lo può affrontare ritagliandosi angoli di libertà e accettando dal viaggio tutto quello che il viaggio dà, comprese le disavventure.
Paolo Rumiz è stato inviato di guerra e il viaggio per lui non rappresenta solo lavoro, ma una filosofia di vita. Nel tempo ha capito che è necessario viaggiare con lentezza, in modo spartano e avere la capacità di arrendersi all’avventura; solo così, infatti, si possono conoscere veramente i luoghi, gli altri e anche se stessi.

Viaggiare significa incontrare l’altro; siamo preparati  all’incontro?


I mass media ci danno delle visioni schematiche della realtà. La televisione e i giornali  raccontano  l’immigrato che delinque, l’Africa  irrimediabilmente perduta, la nostra vita blindata, sempre all’erta a difenderci dai pericoli esterni.
Invece, quando iniziamo a viaggiare scopriamo una realtà, che non è quella degli studi televisivi o degli spot, molto diversa dagli schemi che abbiamo in testa. E’ solo a quel punto che antriamo in contatto con l’altro.

 

Scrive di Paesi lontani, ma anche di parti d’Italia inedite e sorprendenti, come sono i suoi viaggi?

Mi considero un uomo fortunato, perché posso viaggiare con lentezza e approfondire la cultura dei paesi che ho “visito”.  Ed è forse per questo e anche grazie anche alla scelta di muovermi in modo francescano, evitando i grandi alberghi e usando spesso mezzi pubblici, che incontro un mondo e un’Italia diversa e migliore.
Per conoscere gli Appenini, ad esempio, ho scelto di fare il viaggio a bordo di una cinquecento. Alla fine del viaggio mi sono chiesto come mai avevo incontrato solo persone gentili e gradevoli.  Poi ho capito perché. La  cinquecento allontanava le persone arroganti, quelle che ti rovinano la vita, attirando invece quelle simpatiche e comunicative.
Inizio viaggio Annibalico, col Clapier, Valsusa, Piemonte
Fa spesso reportage in zone considerate pericolose, in questo caso come sceglie di muoversi?

Come dicevo si ha una visione un po’ falsata della realtà. Mentre sono convinto, perché l’ho provato, che se ti muovi in modo semplice, senza sfarzi e mezzi che danno nell’occhio, allora puoi affrontare anche luoghi considerati potenzialmente pericolosi come l’Afghanistan, il Darfur o certe zone dell’America Latina.
Semini simpatia perché ti poni nei confronti del loro mondo senza arroganza, mettendoti nelle mani di quelli che ti accolgono. Racconti te stesso e dichiari la tua vulnerabilità e questo atteggiamento, in genere, è un deterrente potentissimo contro possibili aggressioni.

Come riesce allo stesso tempo a trasmettere la complessità di  fatti e luoghi in reportage così scorrevoli?

Avevo un’insegnate di lingua tedesca che mi diceva sempre: «E’ incredibile quanto lavoro è necessario a far si che il lavoro non si veda». Questa è una frase che sposo in pieno. Il lavoro di chi scrive, come me, consiste nel  rendere semplici le cose complesse. I viaggi più difficili sono questi.
Quando scrivi un pezzo che ti è costato una fatica immensa, l’obbiettivo è di non comunicare questa fatica a chi legge, di non far trasparire i dubbi e le paure che ti tolgono il sonno quando cerchi la forma migliore per trasmettere le sensazioni che hai vissuto.

La lettura della gialla cotogna accanto al fuoco con amiciIl viaggio più importante, che le ha lasciato qualcosa d’indelebile?

Mi ha colpito l’anima della Russia profonda; la generosità delle persone che, quando scendevo dal treno o dall’autobus nella più remota periferia siberiana, mi avvicinavano per domandarmi da dove venissi e quale fosse la mia prossima meta, per poi invitarmi a cena o a dormire nelle loro case, senza conoscermi. Un modo di “darsi” all’altro che il nostro mondo ha ormai perduto.
E poi ho un affetto particolare per il popolo afghano che, nonostante quello che accade, trovo straordinario. Ha una capacità di sopportazione per noi impensabile e una capacità di vivere in assenza di speranza che ha qualcosa di eroico.

Rispetto ai viaggi di un secolo fa com’è il mondo oggi?

Il mondo è più banale non c’è dubbio, ma è anche più difficile da attraversare. Noi oggi, ad esempio, non possiamo più andare in certe zone dell’America Latina, risalire via terra il Nilo, raggiungere l’ Afghanistan via terra, perché è diventato troppo pericoloso. Tutte cose che invece si potevano fare fino a cinquant’anni fa.

TriesteLe sarebbe piaciuto viaggiare nei secoli precedenti?

Certamente. Provo un’enorme invidia  quando leggo i racconti dei viaggiatori di fine Ottocento e inizi Novecento, perché loro avevano una vita molto più facile. Il mondo era sì più tribale, ma anche meno timoroso dall’altro. In Africa potevi rapportarti con gli indigeni, anche se non avevano mai visto un bianco. Per questo ho spesso la sensazione di aver sbagliato secolo.
Ciò che oggi spaventa davvero è la trasformazione di questo mondo tribale in qualcosa di moderno. In Africa, ad esempio, io non ho paura dell’uomo con la lancia e la mandria che mi attraversa la strada, ma ho paura del funzionario in cravatta che dà via libera allo sfruttamento delle risorse locali e s’intasca tutto quello che può.

Esiste il viaggio perfetto?

Sono alla ricerca di un viaggio per il quale partire senza bagaglio, senza preparazione e senza conoscere la lingua del posto, per far sì che sia il viaggio a farsi da sé.
Attraversare dei luoghi come un foglio bianco per farsene impressionare, questo è il viaggio perfetto, ma penso che sia anche un viaggio impossibile.

Quindi il viaggio senza bagagli è impossibile?

Credo che l’unico viaggio così, senza bagaglio, senza citazioni e appesantimenti di libri sia quando uno se ne va, per sempre. Secondo me è vero che chi ha passato la vita viaggiando in modo intelligente, ovvero arrendendosi a ciò che incontra,  è anche più preparato a  morire.  Lo fa con più tranquillità.
Il vero viaggiatore capisce che la terra non gli appartiene, che siamo solo di passaggio e che quello che hai arriva da coloro che sono venuti prima di te, ed è solo in prestito. Il vero viaggiatore capisce di essere parte di un fiume con l’acqua che scorre. Andarsene non è assolutamente un dramma, purché non avvenga troppo presto.

Rumiz con Walter Bonatti

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