La scoperta di un team di giovani biologi dell'Università di Pavia è stata presentata in autunno al Mit. Conquistando riconoscimenti internazionali, una menzione speciale sulla rivista Nature e l'interesse del mondo caseario. Lo studioso a capo dell'équipe ci spiega come funziona
Dalla mucca alla macchina. Grazie a microrganismi sintetizzati in provetta estrarre bioetanolo dal siero del latte è possibile: lo ha dimostrato la giovane équipe del professor Paolo Magni, 41 anni, ingegnere biomedico dell’Università di Pavia. Una ricerca italiana presentata lo scorso autunno a IGEM 2009, la competizione più importante sulla biologia sintetica che tutti gli anni raccoglie a Boston, nella prestigiosa sede del Massachusetts Institute of Technology, le migliori università del mondo. Il progetto ha subito conquistato non solo premi e riconoscimenti prestigiosi, ma anche la curiosità della comunità scientifica internazionale. Due mesi fa, la rivista Nature ha riconosciuto il fondamentale contributo del lavoro del team pavese allo sviluppo della biologia sintetica, una nuova disciplina a metà strada tra l’ingegneria e la biologia. Ma, al di là delle importanti considerazioni scientifiche, il progetto del professor Magni ha anche una grande valenza etica: ottenere biocarburante da uno scarto di lavorazione industriale dei formaggi (il siero del latte) permette non solo di riciclare un prodotto difficilmente smaltibile, ma anche di destinare i terreni, soprattutto nel terzo mondo, all’agricoltura, quindi alla produzione di cibo.
Professor Magni, come è nato e in che cosa consiste il vostro progetto?
È frutto del talento dei giovanissimi ragazzi (età media 23 anni) che abbiamo selezionato per partecipare a IGEM 2009. La competizione prevedeva che scegliessimo un progetto da seguire, completo di studi di fattibilità, risorse, comunicazione, sviluppo di un sito web. Tutto questo realizzabile nell’arco di otto mesi. Abbiamo messo insieme le nostre idee e selezionato i progetti migliori. Così, entro il termine previsto siamo arrivati alla definizione del progetto, che poi ha vinto. La filosofia alla base della nostra ricerca è sfruttare uno scarto di lavorazione e dargli valore aggiunto, come avviene per i rifiuti riciclati.
L’idea in realtà non è nuova: già negli anni Novanta sono stati tentati esperimenti simili. Il concetto in sostanza è questo: nel siero del latte è presente uno zucchero, il lattosio, che viene trasformato in glucosio grazie all’azione di alcuni microrganismi. Altri trasformano il glucosio in etanolo (è il concetto di fermentazione che avviene nella produzione del vino o della birra). Noi abbiamo creato un microrganismo in grado di sviluppare l’intero processo con la massima efficienza, producendo etanolo. Quest’ultimo viene poi utilizzato, solo o abbinato alla benzina, nella produzione di biocarburanti. In fin dei conti, creare organismi ad hoc era ciò che ci richiedeva la competizione di Boston.
Quali risultati avete avuto, quali applicazioni possono esserci in futuro?
Dai nostri esperimenti in laboratorio abbiamo ottenuto un risultato buono, ma migliorabile. Per la competizione di Boston avevamo lavorato solo utilizzando campioni in provetta. Quando siamo rientrati a Pavia siamo tornati sul progetto e, questa volta, abbiamo usato davvero il siero del latte. Visti i risultati incoraggianti e l’interesse che nel frattempo si era creato intorno a questa ricerca, abbiamo portato avanti l’idea di costruire una macchina prototipo da installare, in futuro, direttamente nei cascinali, oppure nei caseifici. L’interesse delle aziende casearie è molto forte: abbiamo ricevuto contatti da consorzi di tutta Italia. Il problema dello smaltimento del siero è serio: in parte viene riutilizzato per la produzione di siero-proteine, ma non basta. Il bioetanolo, inoltre, potrebbe essere reimpiegato direttamente in cascina, ad esempio come carburante per i macchinari agricoli.
In quanto tempo potrebbe andare in porto l’intero progetto?
Sono un ottimista di natura e le dico che, se tutto andrà bene, entro due anni si potrebbe arrivare a un impianto pilota di medie dimensioni, in grado di ottimizzare il processo. Servirebbe a convincere le industrie e le istituzioni che vorranno investire in questa idea. È una fase che stiamo sviluppando. Siamo stati contattati da aziende che sarebbero in grado di costruirlo, mentre noi ci occuperemmo solo della ricerca. Ma vedo delle buone possibilità di sinergie tra aziende e università. Abbiamo il supporto delle istituzioni; ciò che manca, come spesso accade, sono i finanziamenti, ma speriamo di poterli ottenere anche attraverso contributi e sponsorizzazioni esterne. Poi servono persone, macchinari, laboratori: ci stiamo attrezzando. Ho scommesso sulla biologia sintetica e sulle sue potenzialità un paio di anni fa: è una disciplina nuova e qui non esiste ancora un dipartimento. Tutto il lavoro è stato svolto nei ritagli di tempo, spesso la sera dopo le 19. Ora abbiamo superato la fase hobby: questo progetto mi assorbe molte energie, ma è una cosa in cui credo.
Il suo team di lavoro è giovanissimo. Cosa pensa dei nuovi ricercatori italiani? Sono in grado di competere con il resto del mondo?
Per quanto mi riguarda dico, convinto, di sì. Quando è uscito il bando per selezionare gli undici studenti per IGEM 2009, mi sono trovato davanti a ragazzi motivatissimi. Sono sei biologi e biotecnologi e cinque ingegneri. Tutti in regola con gli esami, esperienze di studio all’estero: il top della categoria. Hanno lavorato sodo, nei ritagli di tempo, a volte anche la notte e durante il mese di agosto. A Boston non hanno sfigurato, anzi, erano tenuti in alta considerazione dai loro colleghi: il nostro lavoro, anche metodologico, è stato molto apprezzato ed eravamo considerati gruppo di riferimento. Certo, il team è nato appositamente per la competizione dell’anno scorso, molti ragazzi si sono laureati e stanno seguendo altri progetti. Sul bioetanolo stanno ancora lavorando due dottorandi e un tesista che insieme a me porteranno avanti il progetto. Tra poco dovrò selezionare il team per il 2010, confido di trovarne altri undici altrettanto preparati.
Qual è il suo progetto di futuro?
Per me il futuro non può essere che positivo, altrimenti farei un altro mestiere. C’è da investire ancora tanto sulla ricerca, ma vedo i trend in crescita e questo mi conforta. I buoni investimenti, comunque, nascono anche da un’ottimizzazione delle risorse, senza sprechi. Quando mi guardo intorno vedo che qui c’è tanta intelligenza e una preparazione tecnica che non ha nulla da invidiare agli altri.