Il cuore che batte all'impazzata, la sensazione di perdore il controllo, la paura di morire. Così si presenta un episodio d'ansia acuta che oggi può essere curata anche senza farmaci, con percorsi terapeutici efficaci. Per smettere di avere paura
Avere una paura terribile e non sapere perché, sentir crescere l’ansia fino alla sensazione di soffocare o di impazzire, mentre il battito cardiaco sale, i pensieri si confondono e l’angoscia si autoalimenta. Può durare anche solo pochi secondi ma chi ha vissuto sulla propria pelle un attacco di panico sa che sembra durare un’eternità.
Nicola Ghezzani, psicologo clinico e psicoterapeuta, se ne occupa da tempo: è stato a lungo membro del comitato scientifico della LIDAP (Lega Italiana contro i Disturbi d’ansia, di Agorafobia e da attacchi di Panico) e ha pubblicato libri importanti fra cui Uscire dal panico e La logica dell’ansia.
Con lui parliamo della possibilità di curare gli attacchi di panico senza farmaci, basandosi anche sulla psicoterapia dialettica, metodo ideato e approfondito da Ghezzani stesso negli ultimi 20 anni. Per poter scegliere la giusta strada è però necessario sapere cos’è un attacco di panico, cioè saperne riconoscere i segnali.
Cos’è un attacco di panico e come si distingue dalla paura?
La paura è una risposta fisiologica sana a una situazione di pericolo reale. È un utile segnale di allarme perché produce scariche di adrenalina che rendono più vigili e reattivi e perché, attivando le capacità difensive, consente di reagire nel migliore dei modi. Quando invece i centri nervosi che sovrintendono alla paura si attivano senza che ci sia una causa scatenante visibile allora può insorgere un attacco di panico.
Cosa succede quando si ha un attacco di panico?
La persona sente crescere in sé la paura: di morire o impazzire perché non riesce più a controllare i propri pensieri. Il corpo segue la psiche sviluppando palpitazioni, tremori, sudorazione, annebbiamento della vista e senso di soffocamento. Si entra in una specie di loop dove la paura si autoalimenta.
Può farci un esempio?
La persona si trova in mezzo a una grande piazza affollata o sta guidando da sola in macchina quando a un certo punto avverte un senso di ansia che si trasforma in panico. Non sa il perché e questo aumenta la confusione nella sua testa e fa crescere l’ansia. La paura gira a vuoto fino ad arrivare al terrore di morire e comunque non consente alla persona di reagire in alcun modo: il fatto di sentire che la situazione sia fuori controllo non fa che esasperare l’angoscia. Può succedere che qualcuno che ha il cuore debole, e lo sa, senta sopraggiungere i sintomi di un infarto: la paura in questo caso lo allerterà e lo spingerà a fare qualcosa come per esempio chiamare un familiare. Questo stato può durare dai 3 minuti alla mezzora e si può ripetere nel tempo fino a far scivolare chi ne soffre nella depressione.
Ma può essere anche un episodio isolato…
Si, ma anche un singolo attacco di panico rivela una predisposizione a canalizzare le tensioni e i conflitti verso l’ansia parossistica per cui di fronte a una stessa situazione c’è chi reagisce con una depressione, chi ha disturbi alimentari, e chi infine ha reazioni di panico.
Cosa bisogna fare quando si è colpiti da un attacco di panico?
Se si è soli, fermarsi. Qualunque cosa questo significhi: accostare l’auto, appoggiarsi a una parete, sedersi su una sedia o su un gradino per strada. Respirare con calma e verificare quello che davvero sta accadendo, poi concentrarsi il più possibile per spezzare in due il momento di panico. Da una parte ciò che sta succedendo realmente: i sintomi in atto, dall’altra la paura di conseguenze ipotetiche come impazzire o morire.
In questo tipo di risposta al panico bisogna saper distinguere tra i sintomi fisici reali e il trascinamento operato dal “film” immaginario. Se si è in compagnia di persone fidate, interrompere subito quello che si sta facendo, passeggiata, discussione ecc., ed eventualmente toccare l’altro, stringendogli una mano. È importante poi comunicare quanto sta avvenendo descrivendo con calma i sintomi e, anche qui, spezzare l’episodio fra la parte reale e la fantasia catastrofica, che deve essere comunicata perché l’altro possa rivelarne il carattere irreale.
Se non passa, insistere nelle strategie dette e assumere un ansiolitico oppure parlare al telefono con il medico di fiducia oppure, ma solo in caso estremo, raggiungere il Pronto Soccorso di un ospedale.
In sintesi, che lo faccia la persona colpita, l’amico presente o il medico, occorre spezzare il rapporto fra il sintomo occasionale e la fantasia che vi è associata. Il panico nasce infatti da una previsione catastrofica del futuro, previsione “ipnotica” e senza fondamento. Poi bisognerà attivare le proprie risorse per capire e risolvere il problema.
In che modo?
Ci sono due tipi di intervento possibili. Un intervento sintomatico, finalizzato alla gestione del sintomo, e un intervento strutturale, che mira al cambiamento non solo della situazione che genera il disturbo, ma della persona.
Strutturale è l’approccio della psicoanalisi che parte da Freud e passa per Jung, Adler, Reich, Fromm, Klein, Lacan: basandosi sull’analisi dell’interazione fra mente conscia e inconscio, questo tipo di terapia affronta il singolo problema, in questo caso il disturbo da attacchi di panico, rivedendo la persona nel suo complesso, tutta la sua storia con la buona possibilità che il percorso terapeutico duri cinque o sei anni. La psicoterapia dialettica è un intervento sempre strutturale ma più breve.
Come funziona la psicoterapia dialettica?
È un tipo di terapia che indaga dietro al singolo episodio di panico per capire qual è la struttura del sintomo, il conflitto di base che nasconde e da cui trae origine. Per esempio, se una donna che sta guidando lungo una strada grande e molto lontana da casa sente arrivare un attacco di panico e si blocca, potrebbe avere un problema legato all’autonomia: un’esigenza di maggiore autonomia dai legami familiari che nasce dal sentirsi intrappolata nel ruolo di moglie o da un’eccessiva cura dei figli, e allora si vanno ad esplorare nuovi spazi di libertà, oppure è un’antica dipendenza dai genitori e allora le si insegna a essere più autonoma e quindi più sicura. Questo intervento è focalizzato sul sintomo: lo interpreta per risalire direttamente al problema di base e risolverlo. Il sintomo stesso già contiene la spiegazione del conflitto. La durata dipende dai tempi di reazione del paziente, ma di solito ci vogliono almeno 5 o 6 mesi con sedute settimanali fino ad arrivare a un anno.
E l’intervento sintomatico?
C’è la psicoterapia cognitivo comportamentale, che osserva i comportamenti visibili e, risalendo ai pensieri che li hanno prodotti, li cancella sostituendoli con altri, mediante specifiche tecniche di suggestione e persuasione. Nel nostro caso individua i processi di pensiero che stanno all’origine dell’esplosione d’angoscia e ne devia il percorso sostituitendoli con schemi logici meno carichi di emotività. La persona viene rieducata e per così dire allenata a controllare l’ansia e a gestire un attacco di panico.
La donna con problemi di autonomia, tornando all’esempio di prima, imparerà ad affrontare un viaggio lungo organizzandolo in tappe che andrà via via a raggiungere controllando i sintomi o facendosi accompagnare da qualcuno di fiducia per tratti sempre più brevi. Un allenamento progressivo. Lavorano sul sintomo anche le psicoterapie a indirizzo corporeo, basate su tecniche di ricognizione, gestione e controllo degli stati psicofisici. Vanno dal più semplice training autogeno alle discipline meditative di origine orientale, fino alla più complessa Terapia bioenergetica integrata.
Quest’ultima lavora sulle emozioni per consentire alla persona di riconoscerle nelle loro manifestazioni somatiche per poi imparare a scaricarle e gestirle. Sia la terapia cognitivo comportamentale sia la bioenergetica di Lowen rendono la personalità più forte e capace di autocontrollo ma non risolvono il problema di base. Il percorso proposto di solito è di 20-30 sedute per la durata di un anno.
Quanto può costare la terapia?
Una seduta dovrebbe andare da un minimo di 50 a un massimo di 120 euro. Dipende dall’onestà del terapeuta ma anche dalla seduta stessa: una cosa è un colloquio introduttivo di 40 minuti, altra, molto più complessa, una seduta di un’ora e mezza con un dialogo serrato, analisi di scritti o esecuzione di esercizi in stato semipnotico. La durata, come dicevo, è soggettiva così come la frequenza degli incontri: di solito è una volta alla settimana ma i freudiani propongono anche 2-3 sedute settimanali. In generale, se il problema di base non è risolto dopo i primi cinque mesi, io consiglio di continuare solo se il rapporto col terapeuta funziona nel senso che il paziente sente di aver migliorato altri aspetti del suo carattere e c’è empatia. Il percorso terapeutico non dovrebbe durare oltre i 2 anni, secondo me: se in quel lasso di tempo il paziente non ottiene benefici sostanziali c’è il rischio che si sviluppi una dipendenza che non porta da nessuna parte.