L'ex Pfm Franco Mussida, oggi presidente del Cpm Music Institute, analizza il valore della musica nella società odierna al di là della ricerca del successo
«La musica è una delle discipline sociali più belle e studiarla implica il fare un grande lavoro su se stessi». La riflessione è di Franco Mussida, chitarrista, compositore, nonché tra i fondatori della Premiata Forneria Marconi e, attualmente, presidente del Cpm Music Institute di Milano fondato nel 1984 che, oltre a essere una scuola di musica, si occupa anche di portare la musica in luoghi estremi come le carceri.
Al di là della composizione di melodie con le sette note o il suonare uno strumento, cos’è la musica?
Un’arte complessa che va molto oltre all’immaginario comune del musicista che solo sul palco si offre ai suoi fan. Oggi si parla di individualità, del talento che deve emergere, di un mondo musicale in cui tutti vogliono eccellere. La musica diventa performance e viene sempre più spesso avvicinata alla dimensione sportiva, non a quella artistica. In realtà la musica è una delle discipline sociali più belle che implica un lavoro su se stessi.
Infatti chi si avvicina alla musica, oggi, di solito vuole realizzare il sogno del successo. Da presidente di una scuola musicale come si pone davanti a queste ambizioni?
Quando i ragazzi entrano al Cpm si lasciano alle spalle i sogni di successo. Per noi la musica è servizio e dedizione, non apparteniamo alla famiglia dei “Saranno famosi”, una serie televisiva che è stata l’emblema della competizione americana. La cultura europea è diversa, c’è una sensibilità particolare per il mondo delle arti che al Cpm c’impegniamo a sostenere e sviluppare rispettando le individualità di ognuno dei ragazzi che frequentano i nostri corsi.
Avendo dei corsi a numero chiuso come scegliete gli studenti dei vari corsi?
Personalmente faccio un colloquio di almeno mezzora con ciascun aspirante per comprendere, al di là delle attitudini, cosa li spinge e se la musica fa parte della loro natura, una cosa che beninteso è indipendente dal talento che ognuno può avere. Lo studio, infatti, attraverso l’applicazione, l’intelligenza e la capacità di ascoltare permette di raggiungere obiettivi che, magari, chi è dotato di talento naturale potrebbe non raggiungere mai.
Vuol dire che la passione è più importante del talento puro?
Il talento puro dal punto di vista musicale vuol dire riconoscere immediatamente e meglio di altri un suono, ascoltare con più chiarezza insiemi musicali, avere meno difficoltà a gestire il tempo e gestire facilmente il mondo dei suoni. Ma se un ragazzo è deciso a voler addentrarsi nel mondo musicale e ne ha l’attitudine, il tempo e gli insegnanti possono fare la differenza.
Mai nessuno le si è presentato dicendo che l’unico obiettivo è il successo?
La verità è che non è mai successo, forse perché con i miei capelli bianchi e la mia storia incuto timore. In realtà la cosa più mi interessa è il percorso musicale che faranno insieme a noi. Poi come ognuno giocherà nella vita la propria disposizione musicale o il proprio talento è qualcosa di molto personale. Io non ho mai impedito o dissuaso un ragazzo dal partecipare a un talent, ragazzi della scuola vi hanno partecipato ed alcuni si sono anche costruiti una bella carriera come Chiara Galiazzo o Renzo Rubino. Il compito degli insegnanti, però, è motivare i ragazzi e far sì che il loro impegno nella musica si trasformi in qualcosa che li faccia stare bene.
Com’è possibile questo?
Spesso e volentieri chi fa musica s’incammina in un percorso interiore molto importante in cui lo studio della materia è lo strumento per conoscersi sempre profondamente. La musica, infatti, è un pianeta irripetibile.
Lei porta, sin dagli anni 80, la musica nelle carceri. l’ultimo in ordine di tempo è “CO2”, che parte dalla creazione di un’audioteca a disposizione delle strutture carcerarie
Ho iniziato a lavorare nelle carceri nel 1988 con i primi corsi sperimentali italiani subito dopo l’approvazione della Legge Gozzini che aprì alle associazioni esterne la possibilità di lavorare con l’arte all’interno delle strutture carcerarie. Da allora il Cpm non ha mai abbandonato quest’attività impegnandosi anche nella continua ricerca.
Quali sono i suoi obiettivi?
Formare musicisti consapevoli con l’attitudine a vivere quest’arte in maniera creativa e dinamica, che si sappiano adattare alla società che cambia, ma che non dimentichino mai i comuni denominatori che fanno della musica un’arte non divisiva.
Ma la musica, di fatto, divide la società in categorie: c’è chi ama il rap, chi il pop, chi il rock…
A dividere sono sempre le forme musicali, non la sostanza. Gli elementi musicali da trasferire alle nuove generazioni sono sempre gli stessi. La musica entra prepotentemente nella vita di ognuno durante l’adolescenza e fa leva sui sentimenti. Poi, finita l’adolescenza, entra in gioco la ragione, l’elemento emotivo scema ed è difficile che si ascolti altra musica. Cosicché anche da adulti si continua ad ascolta la stessa musica che si ascoltava a 16-17 anni. Anche questi meccanismi devono essere studiati da chi fa musica.
Studiando cosa si scoprirebbe?
Che non c’è alcuna differenza tra la malinconia di un adolescente che ascolta una ballad dei Metallica e una signora di buona famiglia che ascolta un Notturno di Beethoven: si tratta pur sempre di nostalgia. Se ci fermassimo a guardare la forma non ci si ritroverebbe mai, ma inserendo elementi educativi che dimostrino cosa c’è di comune nella musica tutto cambierebbe perché si capirebbe che tutta la musica è uguale. Quest’educazione musicale toccherebbe alla scuola che, invece, non se ne occupa…
Quindi?
La cosa diventa disperante perché il concetto della musica che unisce che dovrebbe essere il faro dei musicisti non interessa più diventando un fenomeno di attitudine laterale che non si sposa con la rappresentazione estrema di sé che la comunicazione assegna al musicista. In verità chi partecipa a un talent troverebbe molto da imparare negli scritti di Schumann del 1837.