Wise Society : Massimo Cirri: «Si può parlare di temi etico-politici anche con leggerezza»
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Massimo Cirri: «Si può parlare di temi etico-politici anche con leggerezza»

di Mariella Caruso
18 Febbraio 2016

Il conduttore di Caterpillar, programma in cui ha lanciato la campagna M'illumino di meno, avverte: «In atto un processo di disumanizzazione, essere buoni diventa una colpa»

Massimo Cirri sul palco con Franca Rame,Foto di Rosy Battaglia FlickrDi Massimo Cirri si conosce bene la voce. I fan di Caterpillar, programma cult di Radio2 in onda dal lunedì al venerdì dalle 17.30 alle 19, la riconoscerebbero tra mille. Altra cosa assai nota è l’ironia con la quale, insieme ai suoi compagni d’etere, permea la conduzione di un programma che continua a lanciare (e a sposare) campagne sociali che lasciano il segno. M’illumino di meno, la più grande campagna radiofonica di sensibilizzazione sul risparmio energetico e la mobilità sostenibile che lo scorso 19 febbraio ha festeggiato la sua dodicesima edizione, per esempio, è una di queste. «In questo 2016 – spiega Cirri – abbiamo focalizzato l’attenzione sull’energia utilizzata durante gli spostamenti, sulla quale solitamente in pochi si fermano a riflettere».

Invece dovremmo farlo tutti?

Esatto, l’energia utilizzata dagli italiani per spostare se stessi e le merci è maggiore di quella consumata dalla grande industria. È anche un ennesimo assist alla campagna per l’utilizzo della bicicletta.

Bicicletta che, come Caterpillar, avete candidato al Nobel per la pace attraverso l’iniziativa Bike the Nobel…

Un numero sempre maggiore di persone si va spostando dalle periferie alla città. Tanti studi confermano che la bicicletta, oltre a essere il mezzo più sostenibile, è anche il più veloce per i piccoli spostamenti. L’ho sperimentato personalmente da quando a Milano ho una stazione di bike sharing sotto casa. Certo la bici non salva il mondo, ma di sicuro il suo utilizzo migliora la vita in città.

Quando ha cominciato a prestare interesse alle campagne sociali?

Arrivo da Radio popolare, che ho frequentato negli anni ’80 e ’90, nella quale l’esperienza sociale faceva parte del dna fondativo. Credo che anche attraverso un contenitore di leggerezza possano passare dei contenuti di rilevanza etico-politica e comunitaria.

La scelta di Radio Popolare è stata consequenziale al suo modo di vedere la vita e la società, o è stata la frequentazione di Radio Popolare a farle cambiare prospettiva?

In realtà è cominciato tutto per caso. Prima ero un semplice ascoltatore, poi ho finito per lavorarci. Da sempre Radio Popolare è un luogo molto aperto alla collettività e alle esperienze collettive, ed è stato quasi automatico passare da ascoltatore a uno che va in onda. Onestamente questa cosa ha cambiato la mia vita: senza radio sarei stato più solo e triste, e naturalmente non sarei finito a Radio2.

Oggi la società quanto ha bisogno di esperienze collettive?

Credo che ce ne sia molto bisogno. Attualmente vengono molto esaltate le virtù delle individualità che mette gli uni contro gli altri. Però l’uomo è un animale sociale e ha bisogno di un circuito comunitario. Vedendola dal lato dell’altra mia professione, quella di psicologo, posso dire che qualsiasi situazione è aggravata dalla solitudine, mentre migliora quando si spezza il cerchio della solitudine entrando nel circuito della comunicazione».

 Da psicologo ha cominciato lavorando nella Comunità Casa Nuova…

E ci sono rimasto per circa dieci anni. Ero un giovane appena laureato e confrontarmi con le profonde sofferenze di persone che avevano avuto l’esistenza segnata dal manicomio è stata una grande esperienza umana, una lezione di vita. I manicomi sono stati una delle croci del ‘900.

Per entrare in sintonia con gli altri ci vuole empatia, qualità della quale la società sembra sempre più orfana indipendentemente che si parli di migranti o di altre categorie di persone…

Concordo pienamente. Si tratta di una dinamica che ha a che fare con tutte le crisi economiche e culturali, quando ci si sente minacciati c’è sempre chi specula disegnando gli altri come una minaccia. Così non si parla più di persone, ma di migranti, l’empatia scompare e c’è un processo di disumanizzazione degli altri. Inoltre chi prova a parlare secondo altri canoni viene accusato di essere “buonista”, come se essere buoni fosse di per sé un aspetto negativo.

C’è ancora un’Italia che reagisce?

Esiste un’Italia che fa sperare, capace di un buon tasso di umanità e intelligenza. A mancare sono i grandi apparati sociali che incanalano queste potenzialità perché viviamo in una società in crisi e sempre più frantumata».

Quale potrebbe essere il miglior modello di sviluppo per la nostra società?

Credo che le socialdemocrazie scandinave, dove la distribuzione del reddito è un po’ meno difforme, siano ancora un modello interessante. Certo, però, che è triste dover dire a mia figlia che tiene in camera un poster di Che Guevara di toglierlo per sostituirlo con quello di Olof Palme.

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