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Mario Botta: «L’architettura trasforma la natura in cultura»

di Andrea Ballocchi
28 Maggio 2019

L’archistar ticinese parla del ruolo dell’architettura nel rapporto con la città, dell’uso dei materiali naturali e della sua personale visione dell’efficienza energetica in edilizia

«L’architettura ha in sé qualcosa di sacro: è in grado di trasformare la natura in cultura». Lo afferma Mario Botta, uno dei più grandi architetti viventi. Dalla ristrutturazione del Teatro alla Scala di Milano, al MoMa di San Francisco, dalla Torre Kyobo a Seoul alla Biblioteca municipale di Dortmund, i suoi lavori e la sua personale cifra stilistica sono presenti e ammirati in tutto il mondo.

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La torre scenica della Scala che eleva la quota di copertura a metri 37,80 rispetto alla quota del piano terra, è stata realizzata nel 2005 dall’architetto ticinese Mario Botta, Foto: Pixabay Foto Pixabay

Nella sua recente lezione nel patio del Politecnico di Milano parla del rapporto dell’architettura con la città. «Ogni intervento architettonico, anche piccolo, diventa sempre parte della città. La buona architettura formula sempre una parte della propria storia e del proprio tempo attraverso lo spazio pubblico». La città, per Botta, «è la forma di aggregazione umana più bella, più flessibile e intelligente che si conosca. Ha la capacità di variare al suo interno con geografie sempre diverse, ma ha avuto due costanti: un centro e un confine». Parla al passato, in quanto rileva che la generazione attuale «vive una rivoluzione epocale, più che strutturale, perché entrambi questi concetti si stanno sgretolando. La città sta perdendo un’identità che gli è propria».

Che ruolo ha l’architetto, se l’architettura assume i caratteri del sacro?

Ha il ruolo di un sacerdote (ride) in quanto è strumento di mediazione tra i bisogni primari dell’uomo e la condizione del tempo della vita che continua. Noi umani rappresentiamo solo una piccola parte del tempo e della vita e dell’universo. L’architetto ha la prerogativa di ricevere come dono dalla collettività del proprio tempo la richiesta di disegnare e progettare una struttura che diventa parte di quel vissuto. Nella mia esperienza ho sempre cercato di piegare la domanda della committenza e di farla diventare parte della città.

Entro il 2050 almeno il 70% delle persone vivrà in contesti urbani. Quali saranno le caratteristiche basilari che dovranno avere le città per essere a misura d’uomo?

La città è la forma fisica, l’espressione formale della storia. Inconsapevolmente, abbiamo bisogno della città perché in essa ritroviamo noi stessi, quale parte di un’umanità che l’ha costruita. Essa è paradossale perché noi ci troviamo bene in una città dei morti, di popoli estinti. Malgrado, quindi, non appartenga a noi, le riconosciamo un valore metaforico, simbolico e d’insegnamento straordinari. Quindi, la memoria è il tessuto connettivo della città.

Nei suoi lavori una costante è la scelta di materiali naturali. L’architettura per essere sostenibile ha bisogno di questi presupposti?

Sì, non necessita di materiali trasformati. Nella storia dell’architettura abbiamo avuto dei capolavori di bellezza e di ricchezza con materiali naturali. Occorre, quindi fare attenzione alla retorica dei materiali trasformati, come quelli derivati dal petrolio. Perché ci dobbiamo complicare la vita?

Quanto sono importanti il verde urbano e la sostenibilità e come si conciliano con l’architettura?

Il verde urbano è certamente importante per la sua funzione rigenerante dell’aria. Però oggi è un termine passepartout: “ecologico”, “pedonale”, “verde”, “naturale” sono tutte parole che permettono di andare dappertutto. Le apprezzo, ma con misura, come apprezzo l’artificio, che non va demonizzato.

La sostenibilità è una lezione etica, di misura del luogo, di economia d’uso contro lo spreco, contro la società dei consumi. Quindi, dev’essere prima di tutto un modo di pensare.

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La stazione della Ferrovia del Monte Generoso realizzata da Mario Botta, Pagina facebook Ferrovia Monte Generoso

Spesso si tende a pensare all’architetto come a chi progetta esclusivamente nuove costruzioni. Oggi, invece, c’è maggiore necessità di rigenerare l’esistente. Come si pone in questo ruolo di artefice della rigenerazione urbana?

Vivo in un’abitazione ricavata da una vecchia filanda, nel nucleo storico della città di Mendrisio. A me va benissimo così, anche in termini di economia del lavoro. Per vivere bene, infatti, ci servono poche cose. L’architettura deve ridurre al minimo le condizioni di superfluo per donare valori reali in termini di habitat.

In questa lettura minimalista rientra anche la necessità di fare efficienza energetica?

Certamente. L’energia va misurata: meno ce n’è, soprattutto in termini di spreco, meglio si vive. In questo senso l’Europa e la sua storia hanno molto da insegnare alle città americane o asiatiche, dove si misura niente perché c’è abbondanza. Porto un esempio: pochi giorni fa sono stato in visita da un collega che ha realizzato un edificio a zero consumo d’energia, nella Svizzera tedesca, dove il clima è rigido. Noi “vecchi europei” abbiamo maggiori anticorpi.

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