Alberto Mantovani ordinario di patologia e direttore scientifico dell’Humanitas University di Milano, spiega come questo approccio potrebbe aiutare a ridurre le malattie neurodegenerative e quelle cardiovascolari
La svolta che in medicina un secolo fa furono in grado di imprimere i vaccini, oggi appartiene almeno potenzialmente alla conoscenza del sistema immunitario. Sempre più spesso si sente parlare di immunoterapia: come approccio efficace nella lotta ai tumori ancora inguaribili con gli approcci tradizionali (chirurgia, chemioterapia, radioterapia), ma pure nei confronti delle malattie reumatiche (già in uso) e di quelle neurodegenerative (ancora in fase di sperimentazione). Temi di stringente attualità nel dibattito scientifico e sociale, sul quale è intervenuto Alberto Mantovani, ordinario di patologia e direttore scientifico dell’Humanitas University di Milano durante «The Future of Science», la conferenza internazionale organizzata dalle Fondazioni Umberto Veronesi, Tronchetti Provera e Giorgio Cini.
La lotta al cancro è a una svolta, grazie ai promettenti risultati garantiti dall’immunoterapia: quali sono le prospettive per il futuro?
«Siamo al punto in cui vediamo l’inizio dell’avverarsi di un sogno, che era poi quello dei grandi padri della medicina: usare le armi del sistema immunitario contro il cancro. Si tratta degli stessi dispositivi che, in un secolo secolo, ci hanno permesso di far passare la vita media di un adulto da quaranta a ottant’anni. Abbiamo imparato a sezionare il sistema immunitario e a studiare più nel dettaglio il tumore. Oggi non ci occupiamo più della cellula neoplastica, ma del microambiente in cui un tumore si sviluppa. Questa nuova concezione aiuta a capire anche perché non è corretto parlare dei tumori come di un’unica malattia. Il cambiamento di paradigma è stato associato allo sviluppo di strategie che tolgono i freni al sistema immunitario, rivelatesi poi efficaci in una quantità variegata di tumori, ma in una quota ancora relativamente piccola di pazienti. Il bicchiere, dunque, è soltanto mezzo pieno».
Quali sono allora i prossimi passi da compiere?
«Dobbiamo capire meglio come funziona il sistema immunitario all’interno dei diversi tumori. Dobbiamo coniugare la conoscenza della genomica del cancro con quella del sistema immunitario e definire quali sono i pazienti che hanno maggiori opportunità di rispondere alle terapie, anche per evitare la comparsa di inutili effetti collaterali. E poi c’è un tema di sostenibilità economica: queste terapie costano ancora tantissimo per poter essere impiegate nel numero dei casi in cui potrebbero rivelarsi potenzialmente efficaci».
Oggi sappiamo che anche per molte malattie neurodegenerative si studia un’origine infiammatoria: cosa può voler dire questo nello sviluppo di nuove terapie?
«I meccanismi dell’immunità innata che determinano un aumento dello stato infiammatorio sottendono in realtà a un ampio spettro di malattie: dai tumori a quelle reumatiche, dalla malattie neurodegenerative a quelle cardiovascolari. Nelle ultime settimane abbiamo scoperto che i pazienti con malattie cardiache trattati con una strategia antinfiammatoria evidenziano una riduzione del cinquanta per cento dell’incidenza e della mortalità per tumore del polmone. Comprendere i meccanismi dell’infiammazione rappresenta dunque una promessa per lo sviluppo di terapie innovative potenzialmente efficaci ad ampio spettro. L’infiammazione, per usare un’affermazione filosofica, è una meta-narrazione della medicina contemporanea».
Capitolo vaccinazioni: è dell’idea che non ci fosse alternativa all’introduzione dell’obbligo per dieci di queste, pena il mancato accesso nelle scuole dell’infanzia e negli asili nido?
«La scelta è stata forte, ma altrettanto saggia, vista la situazione italiana. I vaccini sono un’assicurazione sulla vita. Non dimentichiamoci che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dato un cartellino giallo all’Italia per il calo della copertura vaccinale, in Europa seconda solo alla Romania per i casi di morbillo. E per lo stesso motivo gli Stati Uniti hanno messo in guardia coloro che s’apprestano a viaggiare verso l’Italia. In questi mesi abbiamo perso tre bambini per malattie infettive che non potevano vaccinarsi. Con un altro approccio, li avremmo ancora in mezzo a noi».
Era stato dunque un errore rimuovere l’obbligo nel 1999?
«Con il senno di poi, potremmo dire di sì. Oggi tutti noi, o quasi, ci mettiamo il casco quando andiamo in motorino, la cintura di sicurezza in auto e utilizziamo i seggiolini per trasportare i bambini. Ma questo non è un buon motivo per togliere l’obbligatorietà».
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