Wise Society : “Make a Change”: quando il profitto genera ricchezza. Per il benessere di tutti
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“Make a Change”: quando il profitto genera ricchezza. Per il benessere di tutti

di Ilaria Lucchetti
27 Gennaio 2012

Andrea Rapaccini, un manager di successo, ha fondato il primo movimento italiano che promuove lo sviluppo delle imprese a scopo sociale. Con l'obiettivo di un cambiamento culturale

Andrea RapacciniAndrea Rapaccini, 50 anni, è un manager che ha lavorato con successo in grandi aziende profit-oriented. Ma, a un certo punto della sua carriera professionale, mentre si occupava di “rightsizing”, ovvero di ristrutturazione e razionalizzazione, ha sentito la necessità di svoltare. E così si è rimboccato le maniche e ha fondato, nel 2009, il primo movimento italiano per la promozione del social business: “Make a Change” (www.makeachange.it) formato da organizzazioni e persone diverse (manager, imprenditori, professionisti) che sostengono un cambiamento culturale per mettere il capitale e il profitto al servizio del benessere sociale. Wise Society lo ha incontrato per sapere qualcosa in più su questo tema ancora poco conosciuto e sviluppato in Italia.

Come produrre ricchezza sociale

 

Cos’è il business sociale?

Profit o No Profit. E' questo il problema?Oggi il sistema economico e sociale è diviso in due fasi distinte. Nella prima il sistema economico è focalizzato a produrre ricchezza per il capitale, in una logica puramente profit,  in modo più o meno responsabile e mi riferisco alla CSR. Poi c’è un secondo momento in cui parte di questo reddito, spesso sotto forma di donazioni, di grant, di filantropia, viene reimmesso all’interno della società per svariate ragioni: sensi di colpa, motivi d’immagine, posizionamento o responsabilità sociale d’impresa. Ma questa, secondo noi di Make a Change è una distorsione del sistema. Sul perché sia sbagliato il primo punto è inutile soffermarsi, basta leggere il giornale e vedere dove siamo: il capitalismo che punta soltanto a un ritorno finanziario degl’investimenti porta alla distruzione del sistema. La seconda fase invece è sbagliata perché il grant, la beneficenza, non è un investimento e quindi non è strutturale nell’operazione, ma è un momento transitorio che si esaurisce con la donazione, quindi serve soltanto a risolvere un problema contingente. Inoltre chi riceve non è abituato a gestire i soldi da una prospettiva di efficienza e di investimento, quindi non fa bene nemmeno al destinatario. Perciò, a queste condizioni, non si produce benessere sociale. Il link tra profit e no-profit va trovato prima, non dopo. Bisogna superare la dicotomia, trovando il modo di integrare da subito capacità proprie del profit in un obiettivo diverso, investendo parte di queste capacità per creare ricchezza sostenibile in maniera strutturale. L’obiettivo dell’azienda deve essere la produzione di ricchezza sociale. Questo è business sociale.

Come vede le prospettive di sviluppo in Italia?

Per ora da noi questa dicotomia è ancora molto forte. Le prime esperienze interessanti sono le cooperative sociali che rappresentano l’unico elemento di una certa consistenza di social business italiano. Non tutte, ma alcune. Quelle che non sono spin-off del pubblico, ma aziende a tutti gli effetti che hanno finalità sociali e ambientali e utilizzano lo strumento della cooperativa per realizzare questa attività e per mettere sul mercato prodotti e servizi in regime di concorrenza. Noi ne abbiamo trovate quaranta in due anni e mezzo con queste caratteristiche sulle migliaia esistenti. Queste quaranta hanno un business esattamente come un’impresa profit, solo che hanno obiettivi che non sono il ritorno del capitale, ma il ritorno sociale. E di solito sono anche strutture patrimonialmente molto forti. Per il futuro immagino due strade: l’evoluzione di queste cooperative sociali che si aggregano e diventano consorzi e poi imprenditori e manager, provenienti dal profit, che decidono di convertirsi al business sociale. Ma a oggi sono pochi.

Due premi innovativi dedicati ai giovani

 

Make a Change di cosa si occupa esattamente?

Profit o No Profit. E' questo il problema?

Rispetto alla promozione di business sociale, facciamo alcune attività specifiche. La prima è l’osservatorio con cui andiamo a scoprire le imprese sociali in Italia, a conoscerle, a cercare di quantificare l’impatto sociale o ambientale creato, tentando di formare un’”esperienza” nell’impresa sociale italiana che possa essere un patrimonio, (su cui poi gli eventuali capitali d’investimento possono confluire) piuttosto che di confronto con il business sociale estero. Tutto ciò da origine a un premio dal titolo “L’imprenditore sociale dell’anno”, consegnato ai tre più meritevoli. Per ora non sono molti, ma noi vorremmo farli diventare un sistema di valori che si smarchi da quello vigente, che crei un percorso alternativo. Infatti nel 2009 quando il premio è nato abbiamo organizzato la conferenza stampa di presentazione alla Borsa di Milano, proprio nella tana del lupo, proprio mentre al piano di sopra si parlava di un altro riconoscimento, il famoso “Imprenditore dell’anno” di Ernst&Young, non in polemica ma per aprire un sentiero nuovo. La seconda attività è il concorso “Il lavoro più bello del mondo”, pensato un po’ provocatoriamente rispetto alla vicenda di quell’uomo che nel 2009 vinse un premio per fare il guardiano di un’isola esotica con un super stipendio, senza doversi preoccupare di nulla se non di prendere il sole e poco altro. E questo era considerato da tutti il più bel lavoro del mondo. Mentre noi, che siamo un po’ irragionevoli, pensiamo che il mestiere più bello sia quello che ti permette di guadagnare e nel contempo di cambiare in meglio la società in cui vivi. Da qui l’idea del concorso, rivolto soprattutto ai giovani che vogliono diventare imprenditori sociali e che abbiano un progetto concreto e dettagliato.

Cosa può fare ciascuno per migliorare il nostro Paese

 

Come le è nata l’esigenza di cambiare strada? Da un episodio specifico o da una serie di circostanze…

Per me e per le persone che ho coinvolto la parola-chiave è stata “responsabilità” e abbiamo sentito maturare questa consapevolezza nel tempo. Perché rispetto a ciò che non funziona possiamo attribuire le colpe agli altri: al governo, ai politici, agli imprenditori non responsabili e augurarci che passi, piuttosto che pianificare di mandare i figli all’estero ritenendo che questo sia un Paese morto. Oppure cercare, nel proprio piccolo, di fare qualcosa per cambiare. Questo”‘qualcosa” è nato attraverso la necessità di intervenire sull’economia, perché crediamo che oggi l’economia abbia preso il sopravvento sulla politica, e quindi se si riesce a migliorare l’equità e l’etica dell’economia probabilmente ne deriverà una politica migliore. Per quanto mi riguarda più da vicino hanno pesato una serie di esperienze, come quella in McKinsey dove mi occupavo di rightsizing (riduzione dei costi del personale ndr). I lavoratori venivano fatti uscire dalle aziende in mobilità, cassa integrazione e con altre modalità. Non mi è successo neanche una volta che qualcuno si chiedesse: “queste persone chi sono, che esperienza hanno, in che situazione familiare sono, c’è un modo di riqualificarle, possiamo reinserirle?” Mai, nessuno. E questo mi ha toccato, forse mi ha cambiato.

Quindi, ora che è in una situazione diversa, cosa vorrebbe realizzare?

L’obiettivo mio e di Make a Change è uno: far sì che il business sociale in Italia diventi un assett class, un’opportunità d’investimento. Non per le fondazioni ma per i privati perché sono convinto che l’impresa sociale sia più sostenibile nel tempo di una profit. Infatti, mentre quest’ultima non ha limiti nella distribuzione degli utili, quindi si rischia come oggi di avere imprenditori ricchi e imprese povere, l’impresa sociale vincola la distribuzione degli utili e costringe a reinvestire nell’azienda gran parte del profitto, quindi nel lungo periodo ha un rischio di default decidamente più basso.

Le illustrazione di questo aticolo sono tratte dal video "Profit o No Profit. E' questo il problema?"  YouTube

 

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