Wise Society : Laura Bertelè: ascoltarsi e accogliersi. Il mio metodo verso la guarigione
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Laura Bertelè: ascoltarsi e accogliersi. Il mio metodo verso la guarigione

di Laura Campo
21 Luglio 2011

Specialista in terapia fisica e riabilitazione motoria, ma anche psicologa, la presidente del Centro Gino Rigamonti (Fondazione Apostolo di Merate), racconta che, secondo il metodo da lei fondato, per curare e guarire è fondamentale andare al di là della fisicità e agire sulle emozioni che si riflettono sul corpo provocando contratture, tensioni e dolori. Una visione fuori dal coro.

Laura Bertelè, fisiatraOrtopedico, specialista in terapia fisica e riabilitazione motoria, psicologa, consulente sanitaria e di medicina sportiva, Laura Bertelè è conosciuta a livello internazionale come ideatrice del metodo che porta il suo nome, basato sui principi della fisioterapista francese Françoise Mézières di cui lei stessaè stata allieva e collaboratrice. Bertelè oggi è presidente del Centro di rieducazione posturale e neuromotorio Gino Rigamonti, della Fondazione Apostolo di Merate (Lecco) dove lavora applicando il proprio metodo integrato con altre tecniche, e tiene corsi di formazione per medici, psicologi, terapisti della riabilitazione e psicomotricisti. È anche autrice di libri e manuali di successo che l’hanno fatta conoscere e apprezzare dal grande pubblico. L’ultimo, Ascolta e guarisci il tuo corpo (Mondadori, 17 euro) è in libreria da pochi mesi.

 

 

Medico, terapeuta, iscritta all’albo degli psicologi. Difficile definirla, lei cosa si sente di essere, prima di tutto?

Prima di tutto mi viene da dire una donna. Fattore che influisce anche sul mio modo di lavorare. Professionalmente sono una fisiatra un po’ speciale, o meglio una terapeuta psicocorporea: mi dedico a persone che hanno problemi corporei e cerco di aiutarli ad ascoltarsi e capirsi.

Reading of the human body, album di kl25031/flickrConsiderare l’uomo nel suo insieme e ricorrere a più tecniche integrate sono caratteristiche forti del suo modo di curare. Aspetti che ricordano le medicine alternativa e orientale. Quanto c’è, nella sua formazione, di cultura e pratiche mediche “non occidentali”?

Ho studiato le medicine orientali perché mi affascinava l’idea che da mondi e culture completamente diversi si fosse arrivati alle stesse conclusioni e che certe leggi della medicina occidentale si ricollegassero a quelle dei 5 elementi. Personalmente pratico il tai chi perché mi piacciono le arti marziali, ma la mia formazione è strettamente occidentale. Quello che mi può avvicinare alle pratiche mediche orientali è considerare la complessità dell’uomo nel suo insieme. È anche fondamentale, nel mio metodo, lavorare in equipe e questo non è facile in una cultura occidentale come la nostra, così competitiva e maschile. Mentre il creare reti, è nuovo e femminile. Significa saper dire: “fin qui arrivo io, con le mie competenze”. E se un altro specialista sa fare meglio un’altra cosa lo cerco e lo coinvolgo. Lavorare in rete mi permette di aiutare molte più persone. Collaboro spesso con i dentisti, per esempio o con i neurologi. È un incontro e uno scambio di competenze a favore del paziente. In questa rete, inutile negarlo, siamo molte più donne, c’è solo qualche uomo: molto intuitivo e con una componente femminile importante, però.

Cosa significa per lei curare?

 

Dico sempre che la scelta terapeutica è una scelta filosofica, non solo tecnica. Ognuno sa che cosa vuole dal proprio corpo ed è in grado di decidere. Nessuno dovrebbe essere in totale balia dei medici o degli esperti. Diffido della medicina che fa paura al paziente, che lo ricatta o cerca di intimorirlo: “se non fa come le dico lei non guarirà” e frasi del genere. Dietro questo approccio c’è una sorta di violenza, di aggressività, di voglia di riportare il paziente nella “norma“. Decidere per lui, anche se magari a fin di bene. Io credo invece nell’importanza di rimettere l’uomo al centro delle attenzioni mediche, ascoltarlo e offrirgli una rete di aiuti. Non credo nel protocollo uguale per tutti (che dice “adatto l’uomo a questa cura”) ma applico l’approccio che dice: “ti ascolto e trovo la cura giusta per te”. Questo significa accogliere l’altro, senza giudicarlo. Senza decidere per lui, ma adattandosi a lui. L’altra domanda che mi faccio sempre è cos’è la guarigione? Guarire non significa togliere il sintomo, non è nemmeno togliere il dolore. È aiutare qualcuno nel suo percorso di conoscenza e consapevolezza, anche attraverso fasi di dolore. Ma il paziente è pronto? Io gli propongo una relazione, un cammino sul quale posso accompagnarlo, ma il cammino è suo e deve accettarlo. Molti, anche tra i miei pazienti non accettano. Molti mi dicono di no. E io ne prendo atto. Perché l’altro è libero di decidere. Di andarsene ma anche di tornare, se e quando vuole: per questo lascio sempre aperta la porta.

Cover libro, "Ascolta e guarisci il tuo corpo"Il metodo Bertelè: ovvero “il nostro corpo è il vero maestro” e anche  il titolo  di un capitolo del suo nuovo libro. Ci spiega quali sono sono i principi fondamentali del suo lavoro terapeutico e riabilitativo?

La base sostanziale è il metodo Mézierès, che mi ha aiutato a leggere il corpo dell’uomo e capire come sviluppare il mio modo di lavorare. A entrare dentro le tensioni e ascoltarle. Francoise Mézierès (fisioterapista e insegnante presso l’Ecole de Orthopedie et Massage di Parigi dal 1939 in poi) è stata la mia grande maestra, una persona speciale che ho avuto l’onore di accompagnare e affiancare negli ultimi anni del suo lavoro. Mézierès ha osservato che nel corpo umano i muscoli formano delle unità funzionali chiamate catene muscolari: le catene muscolari sono cinque e sono formate da più muscoli concatenati fra loro che si comportano come se fossero un solo muscolo troppo corto e troppo forte. Queste catene sono cinque grossi “elastici” che ci schiacciano e ci deformano, provocando dolore e limitazione nei movimenti. Da questo deriva la necessità di recuperare l’estensibilità muscolare, con un lavoro di allungamento e scioglimento per liberare le articolazioni e recuperare l’efficienza del sistema muscolodentineo-scheletrico. Non solo. Nel corpo è scritta la nostra storia, c’è un cammino attraverso cui noi possiamo risalire, come una specie di filo d’Arianna, alle nostre emozioni, al perché quei muscoli si sono contratti. Se un paziente riesce a ricordare in che periodo è comparso un certo dolore può spesso risalirne alla causa. Nei muscoli, nel corpo, noi fissiamo i problemi non risolti, le sofferenze che non riusciamo a esprimere, le ferite affettive. È spesso il corpo a salvarci da un dolore che potrebbe metterci sulla strada della follia o di gravi disturbi psicotici. E io questo ho imparato da Mézierès: agire attraverso il fisico per arrivare a lavorare sulle emozioni, le emozioni che hanno provocato quelle contratture, quei nodi, quel dolore e provare a farle uscire, a scioglierle, andando alla radice.

Daniela Chimenti, terapista del metodo Bertelè, mentre esegue un trattamento, nel suo studio di RomaA chi è consigliato il metodo Bertelè?

A chi soffre di problemi muscolari e articolari acuti (ad esempio tendiniti, esiti di distorsioni, fratture, lussazioni, periartriti, lombalgie, cervicalgie, sciatalgie, ernia del disco) e cronici (artrosi, scoliosi, malattie reumatiche). Può essere usato con molta efficacia anche per le malattie neurologiche (per esempio emiplegie, tetraparesi spastiche), congenite e acquisite. Ma è consigliato anche a tutte le persone che desiderano migliorare la loro postura, le loro capacità motorie, la forma fisica (musicisti, ballerini, attori, sportivi), e a chi vuole, semplicemente star meglio nel proprio corpo. Le sedute sono strettamente individuali, durano da mezz’ora a un’ora (le eseguono terapisti esperti nel metodo Bertelè in varie città d’Italia) e i pazienti possono avere qualsiasi età. Sono anche previste settimane intensive residenziali, con più terapisti e soggiorno in diverse località a contatto con la natura, dalla Sardegna a Ischia (per altre info e contatti: www.fondazioneapostolo.it tel. 039/9920076).

 

 

Cosa significa uno dei suoi insegnamenti più belli ed efficaci: “non andare contro il dolore, ma verso il dolore”?

Se il tuo corpo, che spesso è più intelligente della tua testa, ti sta mandando un segnale e tu stai soffrendo non serve ignorarlo o combatterlo. È come se avessi in casa la spia di un allarme che si accende e tu spegnessi la spia anziché fermare l’uscita del gas. Bisogna capire perché si è accesa la spia e non solo a livello fisico. Per questo è necessario accogliere il dolore fisico come un messaggio prezioso che viene dalla parte più intelligente e più autentica di noi stessi. Lo diceva già il medico britannico Edward Bach (l’ideatore della cura alternativa basata sulla fitoterapia): il sintomo è un segnale di salute che la nostra anima ci manda per dirci che la stiamo soffocando…

C & G soccer, album di Jeremiah Ro/flickrUno dei suoi ambiti di maggior competenza è quello dei problemi alla colonna degli adolescenti. Lei dice spesso che i genitori fanno un errore grave cercando di prevenire questi disturbi con il ricorso massiccio allo sport. Perché e cosa far fare, invece, ai bambini?

Quel che è dannoso è far loro praticare sport e ginnastiche che li costringano a un addestramento meccanico e condizionato. In questo modo i muscoli si irrigidiscono, frenano le articolazioni e la crescita della colonna vertebrale schiacciandola e deformandola. La credenza di potenziare i dorsali e gli addominali, secondo il mio metodo, non funziona perché la causa di tutte le patologie della schiena e della postura è proprio l’accorciamento e l’eccessivo potenziamento di quei muscoli. È vero, invece, che bambini e ragazzi dovrebbero muoversi di più: non va bene stare immobili per ore davanti a computer, playstation e tv con uno sproporzionato lavoro mentale rispetto all’immobilità corporea. Il risultato? Diventano degli impacciati psicomotori che non riescono neanche a toccarsi la punta dei piedi. Quindi è fondamentale far loro recuperare la dimensione fisica, attraverso una educazione motoria nella quale è importantissimo il valore del movimento naturale e della sperimentazione, cioè mettere il bambino nelle condizioni di fronteggiare e superare, dal punto di vista fisico, situazioni nuove e diverse: correre, saltare, arrampicarsi, affrontare anche piccoli ostacoli, difficoltà, perché il corpo impari una sorta di libero “aggiustamento spontaneo”. L’esatto contrario di una eccessiva protezione, ma anche della ripetizione di movimenti stereotipati come accade in molti sport, che alla lunga crea a livello neurologico vie prioritarie sempre uguali che escludono le altre e le fanno atrofizzare. Quindi perché un bambino mantenga il suo fantastico sistema nervoso al massimo dell’efficienza deve sempre trovare nuove risposte a stimoli nuovi, naturalmente anche a livello psicologico.

Tra i suoi recenti interessi e nuovi campi di studio c’è anche quello che riguarda i vaccini infantili. Ci spiega di cosa si tratta e perché le sta tanto a cuore?

 

È una situazione che, anche da medico, ritengo allarmante: si è diffuso un uso esagerato dei vaccini in età precoce che può creare gravi danni. Cerco di spiegarmi meglio: i vaccini obbligatori sarebbero quattro, ma ormai molti genitori scelgono di fare ai figli di tre mesi l’esa o l’eptavalente. E sempre più vaccini facoltativi vengono consigliati dai medici anche negli ospedali. Tutto questo su individui che non hanno ancora un sistema immunitario perfettamente completo e che può facilmente andare in tilt perché deve elaborare in poco tempo tutti gli anticorpi necessari a “contrastare” i nemici iniettati con il vaccino. La motivazione data a madri e padri per convincerli è che servono a proteggere il bambino ma non è vero. Dietro c’è in realtà la pressione delle case farmaceutiche. Il discorso per il quale mi batto e che faccio con i miei colleghi immunologi è questo: prima di fare tutti questi vaccini a un bambino di 3 mesi e buttargli dentro il corpo una quantità così elevata di antigeni vediamo almeno se il suo sistema immunitario è sano ed è in grado di affrontarlo. Perchè se non lo fosse ci possono essere reazioni molto importanti che vanno dalle lesioni neurologiche fino all’autismo.

Baby vaccination, credit by Adam Gault/Science Photo Library/Corbis

Quindi i suoi consigli alle madri su questo argomento?

Inannzitutto osservare il bambino: vedere se è sano, se è nato bene, se è tonico e in questo caso ci sono meno problemi. Fare attenzione invece se è nato prematuro: c’è l’abitudine a super vaccinarlo per proteggerlo, invece è sbagliatissimo perché il suo sistema immunitario è ancora immaturo. Altrettanto importante è chiedersi che famiglia c’è dietro: cioè la mamma soffre di una malattia autoimmune come la tiroidite o la psoriasi? Uno dei genitori ha avuto un tumore? Facciamo un esame delle difese immunitarie: basta un semplice prelievo in tutti i grandi ospedali. In generale andarci cauti, chiedere spiegazioni e chiarimenti, anche se il pediatra lo consiglia e insiste. Ci sono vaccini come l’antiepatite, per esempio, che possono essere tranquillamente rimandati da adulti. Dietro la nostra salute ci sono interessi enormi, quindi manteniamo un atteggiamento critico e consapevole. Soprattutto quando si tratta dei nostri figli.

Lei dice si ritenersi fortunata perché può aiutare molte persone. Cosa significa poter incontrare, accogliere e dare sollievo a un altro essere umano?

 

A me restituisce il senso della vita e dà sempre una grande gioia. So di aver avuto la fortuna di fare quello per cui sono nata. Io non penso che ciascuno di noi nasca con un destino tracciato, ma con qualcosa da dire nel mondo, con una specie di proprio personale messaggio da portare agli altri uomini. Io ho trovato la via per dare il mio. Sono al mio posto nel mondo e felice di questo. Dal punto di vista professionale, ma anche personale, accanto a mio marito Carlo e mio figlio Giovanni. La cosa bella è che tutto il mio percorso si è creato nel tempo. L’unico dato certo di partenza è che volevo fare il medico dall’età di cinque anni…. Poi ho lavorato molto su di me, perché sono convinta che tutti quelli che scelgono un mestiere di aiuto debbano affrontare per primi i propri problemi. Ho sempre pensato che non sia un caso che io lavori proprio sul corpo, probabilmente in questo cercavo una migliore modalità di relazione con gli altri, perché vengo da una famiglia dove ci si toccava poco. Penso che la vita ti porta spesso verso quello che tu devi e vuoi diventare, ma poi siamo noi a frenare, a non capire, a sbagliar strada con il risultato di essere sempre insoddisfatti e star male. Se invece ti rendi disponibile alla vita è la vita stessa a portarti sulla tua strada giusta.

Infatti, alla fine di Ascolta e guarisci il tuo corpo lei dice che la strada della guarigione e della felicità vanno di pari passo. Cosa dobbiamo fare per mantenere o raggiungere queste mete?

 

Ascoltarsi e accogliersi. So che sembra facile e sembra poco. Invece, secondo la mia esperienza, è proprio l’unica via per ritrovarsi, guarire e stare bene.

Together, album di Katharina G/flickr

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