Simone Gobbo, dello studio Demogo che ha firmato il bivacco Fanton, nel cuore delle Dolomiti, spiega quali priorità deve avere l’architettura rispetto al contesto urbano, al verde e alla capacità di emozionare
Quando avevano meno di trent’anni hanno deciso di fondare Demogo, nel 2007, uno studio di architettura tutto loro. Due anni dopo Simone Gobbo, Alberto Mottola e Davide De Marchi hanno vinto il primo premio Europan 10 per la progettazione del nuovo Municipio di Gembloux in Belgio. Completato nel 2015, l’edificio è stato anche riconosciuto del premio IQU – Innovazione e Qualità Urbana. Sempre l’anno scorso allo studio è stato tributato il riconoscimento quale “Giovane talento dell’architettura 2015” istituito dall’Ordine professionale degli architetti.
Oggi proseguono nel loro mestiere occupandosi di grandi aree (hanno ricevuto una menzione speciale per il piano regolatore di area ex Winckler a Marly in Svizzera e hanno vinto il primo premio al concorso per la riqualificazione del grande centro commerciale FoxTown di Mendrisio), ma anche di bivacchi alpini: tra gli ultimi progetti vinti c’è quello del bivacco Fanton, nel cuore delle Dolomiti.
Diversi progetti, diverse situazioni, un unico modus operandi: «Poniamo molta attenzione al contesto – spiega Simone Gobbo – Il nostro modo di progettare è legato prima di tutto alla sua ricostruzione dal punto di vista culturale, quindi alla comprensione dei luoghi. In fase organizzativa investiamo molto tempo per cercare di “entrare” dentro un sistema, capire che ruolo abbia all’interno del tessuto urbano, le regole che interessano l’area di progetto. Poi lo rielaboriamo, sviluppando un linguaggio autonomo e il nostro stile autoriale. È un lavoro lungo e faticoso, in cui si possono individuare tratti comuni. Uno di questi è che tutti i nostri progetti sono delle letture urbane per far sì che l’opera architettonica non sia un oggetto a sé stante, ma pensata anche nella sua azione di interazione con ciò che c’è attorno, tra lo spazio e le persone».
In tutto questo percorso come entra in gioco l’ecosostenibilità?
La parola ecosostenibilità è inflazionata e si sta svuotando del suo significato originario. Reputiamo sia una condizione basilare per ogni architettura costruita oggi, non un fattore straordinario. In realtà ogni architetto di buon senso dovrebbe avere la capacità di sfruttare anche dal punto di vista energetico le performance che una struttura può avere. Amiamo poco quei progetti in cui il fattore energetico viene forzosamente esibito. Invece, un concetto spesso taciuto o bistrattato è quello della bellezza. Si ha quasi paura a parlarne in architettura, invece deve essere un fine da perseguire con forza. Dobbiamo emozionarci quando attraversiamo uno spazio architettonico, quando ci troviamo al suo interno o lo vediamo per la prima volta. Se manca la relazione con lo spazio, viene meno anche il significato stesso di architettura.
Quanto è importante la presenza del parco nel contesto urbano in generale e quale ruolo dovrebbero avere gli spazi verdi all’interno della città?
Generalmente per noi il “vuoto” ha la stessa importanza del “pieno” nel senso che progettiamo gli spazi pubblici come se fossero esse stesse architetture. Non c’è distinzione tra uno spazio chiuso e uno aperto, dobbiamo pensare alla stessa qualità. Il verde non deve essere “ciò che resta” dopo aver realizzato un progetto, ma deve avere un suo disegno. Pensiamo alla storia dei giardini, che in Europa ha conosciuto uno sviluppo straordinario; ciò dimostra che i grandi parchi pubblici e le aree verdi vanno disegnati con la stessa dedizione, tempo e qualità di un edificio.
Nel caso dei bivacchi alpini, come si coniuga l’intervento architettonico in un contesto così estremo?
Il processo di lettura e comprensione è sempre lo stesso di quando si progetta per il contesto urbano: le montagne, i sentieri sono segni di cui si deve tenere conto come pure l’esposizione solare e ai venti, la collocazione e la sua visibilità man mano che si sale per raggiungerlo. Una complessità di elementi analoga a quella che entra in gioco nella valutazione del contesto urbano. Nel caso di bivacchi e rifugi c’è la necessità di rispondere a esigenze primarie, per esempio quella di fronteggiare il rischio valanghe. Certo, il paesaggio montano d’alta quota è un elemento cruciale e qualsiasi cosa ci si trovi a progettare è comunque un’invasione di campo. Per questo occorre comprendere bene il progetto alla luce della sensibilità verso il luogo e della integrazione e della continuità con quanto già presente.
Qual è il fine dell’architetto nel migliorare la città? E come si rende più sostenibile?
Occorre risolvere i problemi che le città hanno, vivendo una grande contraddizione: doversi riadattare nei confronti della contemporaneità, ma non sapere come. Vanno messi in ordine gli elementi già esistenti. È finita la stagione delle grandi trasformazioni, delle opere faraoniche. Bisogna operare con piccoli innesti, che siano sostenibili economicamente e progettati in modo da comprendere nel processo anche un dibattito culturale di un certo spessore. Questi innesti devono essere decisivi, in grado di rimettere a sistema quanto fatto in passato perché ogni tassello modifica ciò che sta intorno, produce delle reazioni a catena. Ci vuole tempo per fare i progetti. E, ribadisco, ci vuole un dibattito prima della loro attuazione, in grado di correggerli se necessario. Il cantiere di Gembloux è durato tre mesi in meno del previsto con una spesa inferiore. E questo è stato reso possibile perché abbiamo speso molto tempo prima, in sede di progettazione e di condivisione dei temi.
L’architettura come può contribuire a rendere più green il nostro pianeta?
Passiamo buona parte delle nostre vite all’interno di edifici. L’architettura modifica la vita delle persone: già questo dovrebbe essere sufficiente a capire i luoghi e gli spazi. Troppo spesso non ci rendiamo conto di quanto ciò incida sul nostro modo di essere, invece dovremmo meritare di vivere all’interno di uno spazio di qualità.