Wise Society : La cucina non può più prescindere dall’etica. Ne va del nostro futuro
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La cucina non può più prescindere dall’etica. Ne va del nostro futuro

di Vincenzo Petraglia
24 Dicembre 2020

Con Giancarlo Perbellini, pluripremiato chef due stelle Michelin che ha fatto della sostenibilità una delle sue cifre stilistiche, per parlare di come a tavola si possa e si debba essere più green e consapevoli. I suoi consigli e una ricetta esclusiva per le feste preparata per i lettori di Wise

È uno degli ambasciatori nel mondo della grande cucina italiana, due stelle Michelin e una serie sconfinata di premi in bacheca. Per la sua creatività certamente, e per la sua attenzione quasi maniacale alla materia prima. Ma anche per le sue intuizioni (nel ristorante a Verona Casa Perbellini ha sviluppato l’innovativo concept di annullare ogni barriera fisica fra la cucina e la sala, in modo da dare ai clienti la possibilità di assistere in diretta alla creazione dei piatti) che lo rendono uno dei più capaci chef imprenditori in circolazione, con ben nove tra ristoranti e locali nel nostro Paese. Non è un caso, infatti, che abbia proprio di recente ricevuto il riconoscimento “Cucina e Management” nell’edizione 2020 dei Foodcommunity Awards, gli oscar dell’enogastronomia assegnati alle eccellenze imprenditoriali nel mondo della ristorazione e del food & beverage.

Giancarlo Perbellini, impegnato anche in diversi progetti per l’educazione alimentare e antispreco fra i ragazzi, ha fatto della sostenibilità uno dei pilastri della sua cucina e per Wise Society ha preparato in esclusiva un piatto tutto da gustare, perfetto per le feste natalizie (la ricetta completa in fondo a quest’intervista) e qualche consiglio, nel video sotto, per essere più green e consapevoli a tavola.

Giancarlo-Perbellini

Lo chef Giancarlo Perbellini nel suo ristorante veronese Casa Perbellini, due stelle Michelin, all’interno del quale ha sviluppato l’innovativo concept di annullare ogni barriera fisica fra la cucina e la sala, in modo da dare ai clienti la possibilità di assistere in diretta alla creazione dei piatti.

Partiamo dal principio. Cosa l’ha spinta a diventare chef?

Mio nonno Ernesto amava cucinare, nei pranzi importanti c’era lui ai fornelli, e tra noi c’era grande feeling. Se sono diventato cuoco lo devo molto a lui. La mia cucina è memoria del gusto, un ricordo di quello che è stato, in chiave contemporanea. Sono cresciuto in una famiglia storicamente legata al mondo della ristorazione e soprattutto della pasticceria; quest’ultima, però, mi piaceva meno perché la trovavo un po’ monotona, per questo motivo ho scelto la cucina, che mi dava la possibilità di interpretare le stagioni e tutto il resto. La cucina è un processo che coinvolge al contempo sfera cerebrale e sensoriale. Un’esplorazione del gusto che avviene pensando ad abbinamenti sempre nuovi. All’essenza si arriva con il tempo e riuscirci è sempre una sfida. Penso che la cucina sia un’evoluzione anche di noi stessi.

Se dovesse descrivere con tre aggettivi la sua cucina, quali sceglierebbe?

Direi una cucina in movimento, legata alle stagioni, alla ricerca di qualche scintilla. E poi, direi una cucina che predilige la semplicità del piatto all’estetica. Il 99% degli chef ha l’ossessione per l’impiattamento, che io non ho, mentre ho una vera e propria ossessione per il gusto. Tutto deve essere perfetto e sempre uguale. Ma è difficile standardizzarlo, trasmettere la sua replicabilità. Non solo perché chi compone il piatto ha testa e mani diverse. Pensiamo solo a quanto sono diversi tra loro gli ingredienti, da una settimana all’altra. L’asparago inizialmente è campano, il bianco fino a metà maggio non sa di niente, ai primi di giugno lo prendi in Trentino. Siamo cuochi artigiani. Facciamo con quel che c’è e per questo io sono maniaco sulla ricerca del prodotto. Devi conoscere il periodo dell’anno, la settimana, il luogo perfetto in cui andarlo a reperire. E non è facile, cambiano le temperature, cambia tutto.

Ha sviluppato un concept di ristorante molto innovativo: ce lo spiega? Perché ha sentito il bisogno di rendere il suo ristorante così?

Casa Perbellini si chiama così perché la gente aveva paura di varcare la soglia di locali come questo e io volevo avvicinarla. Casa fa sentire in famiglia. Il fatto che apparecchiamo la tavola quando il cliente si siede, e non prima, rompe un sacco di schemi. A Casa Perbellini tutto sembra più semplice e, invece, per noi è tutto più complicato. Inoltre ho abbattuto il muro che separa la cucina dalla sala perché volevo far capire alla gente cosa c’è dietro a un piatto e che c’è un lavoro di squadra di tante persone, che un piatto non viene eseguito in mezz’ora, far vivere insomma un’esperienza diversa in un luogo dove sala e cucina si incontrano. È stata una scelta anche in risposta al dilagare di certi format televisivi che hanno dato un’idea del tutto distorta di questo mestiere senza mostrare ciò che realmente accade in una cucina, un lavoro meticoloso che richiede tantissimo tempo. L’ospite è per me un’occasione di fondere due universi, umano e culturale. La cucina è un luogo di incontro di passato e presente, di vite e di storie, ma anche di sogni e visioni. Il ristorante lo sento mio ma lo concepisco a partire dagli altri, cioè penso a come far star bene i miei ospiti. Come grazie a loro ho il piacere di esprimere me stesso.

Wafer Perbellini

Il Wafer al sesamo, tartare di branzino, caprino all’erba cipollina e sensazione di liquirizia è uno dei marchi di fabbrica del grande cuoco scaligero, un’esplosione di sensazioni e sapori davvero unica.

Il lockdown, specialmente quello di primavera, ha messo in luce una sorta di valore terapeutico della cucina. Per molti è stato un modo per riscoprire un nuovo rapporto con il cibo e con la propria manualità, Non è un caso, per esempio, che i supermercati in quel periodo siano stati letteralmente svaligiati di farine e lieviti. Cucinare è un qualcosa di rassicurante, che ci aiuta a combattere anche ansia, stress e paure?

Sicuramente la cucina ti fa sognare e, comunque, con le tue mani crei qualcosa o trasformi qualche cosa, la cucina ti porta via, libera la mente, perché ha bisogno di impegno, anche intellettuale.

So che proprio in questo periodo di confinamento ha creato un panettone e un pandoro molto particolari. Ce li racconta?

Nella ricetta ho dato un po’ più di contemporaneità al gusto del pandoro perché l’ho alleggerito, un po’ come avvenuto nella cucina degli anni 80/90; ora ho deciso di farlo nella pasticceria (nel 2019 Giancarlo Perbellini ha vinto il Premio World Pastry Star, che lo ha di fatto proiettato nell’olimpo dei migliori pastry chef del mondo, ndr). L’ho fatto nel pandoro bilanciando gli zuccheri, non ho toccato le uova e il burro, ma ho solo ridotto la parte zuccherina, perché sono per un fine pasto elegante e leggero, che invogli ad assaporarlo pienamente.

pandoro perbellini

Perbellini eccelle anche nell’arte pasticcera (nel 2019 ha ottenuto il riconoscimento “World Pastry Star”, entrando così nell’olimpo dei migliori pastry chef del mondo. Di recente ha utilizzato il lockdown per mettere a punto, nel laboratorio della sua X Dolce Locanda, un pandoro e un panettone speciali e altri lievitati, alcuni dei quali a sostegno della ricerca sul cancro della Fondazione Airc.

Dal modo in cui ci nutriamo, quindi dal mondo in cui coltiviamo, produciamo e consumiamo cibo dipende gran parte del futuro del nostro pianeta. Nella sua cucina è molto attento al recupero della materia prima. Ci faccia qualche esempio…

Recuperiamo carciofi, piselli, fave, bucce di patate. Per esempio con le polveri, con le foglie del carciofo facciamo un’acqua tostata di carciofi. In ogni menù c’è qualcosa di recuperato: con le ossa facciamo i fondi e utilizziamo persino le chele dello scampo. Nel prossimo menù ci sarà il recupero delle foglie di carciofo, che tosteremo. Le utilizzeremo per un brodo e ne faremo uno zabaione da abbinare ad un carciofo, lo stiamo provando in questi giorni. Insomma si cerca di non buttare via nulla. 

Con le bucce delle patate cosa fa?

Si fanno i brodi.

L’Italia è uno dei paesi europei col più alto tasso di obesità infantile. Perché secondo lei?

La gente non ha più il tempo e non si dedica più alla cucina in casa per cui tutto diventa più complicato e non c’è più un controllo della salubrità di ciò che si mangia, perché quello che fai tu in casa bene o male è controllato da te stesso. Il tempo cambia di quindici minuti tra una crema spalmabile fatta in casa e una acquistata al supermercato, ma nel primo caso hai il controllo degli zuccheri e dei grassi, nell’altro invece non ce l’hai. Il gesto è uguale: in uno apri la porta del frigorifero e prendi panna, pasta di nocciole e cioccolato al 55/70% e nell’altro apri la porta della credenza e prendi un barattolo pronto. Bisognerebbe, credo, dare più spazio a una sana educazione alimentare, nelle scuole ma, prima ancora, fra i genitori. 

Accade invece, contrariamente a quanto avviene fra i più piccoli, che sempre più chef siano in perfetta forma fisica, a dispetto anche dell’immagine classica del cuoco che si aveva fino a qualche anno fa. Quali sono le sue personali regole salutiste per mantenersi in forma?

Fra gli chef oggi c’è molta più attenzione, siamo noi i primi rappresentanti della cucina, quindi avere un’etica salubre e sostenibile è nel Dna dei cuochi. Personalmente applico un giorno di magro alla settimana, e comunque le verdure fanno parte della mia dieta. Cerco di integrare ogni giorno un quarto di verdura, un quarto di frutta, un quarto di proteine e un quarto di carboidrati, questa è la mia regola. Il giorno di magro è il giorno dove mi depuro mangiando solo verdure, possibilmente anche fermentate. E poi corsa, palestra e attività fisica due o tre volte alla settimana.

Una cucina “saggia”, wise appunto, secondo lei che caratteristiche dovrebbe avere?

Una cucina che deve avere rispetto della materia prima e da dove proviene. Per me il chilometro zero è l’Italia completa, per cui da noi guardiamo sempre al mercato dell’Italia quando componiamo il menù e raramente usiamo prodotti importati, specialmente della parte vegetale: il 95% dei prodotti che usiamo sono italiani. In questo momento stiamo guardano molto ai produttori, usiamo prodotti del posto, oltre che di stagione. Ad esempio, il broccolo di Custoza e il broccolo fiolaro, il radicchio di Treviso – lo spallone – e il cardo, le castagne e i mandarini. Credo che la ripartenza in Italia debba tener conto anche della filiera di prodotti di qualità made in Italy.

Un piatto per le feste di Giancarlo Perbellini?

Una bella insalata invernale di Rosa di Gorizia, tartufo nero della Lessinia e barbabietole di campo (per la ricetta, preparata in esclusiva per Wise Society, clicca qui).

Vincenzo Petraglia

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