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Giulio Iacchetti: facciamo il design di gruppo

di di Sabrina Sciama
5 Ottobre 2010

Mettere in rete le esperienze. Ideare oggetti su misura.Abolire il concetto di rottamazione. Ecco quali sono per il designer milanese i punti fondamentali dai quali ripartire. Per non invadere il pianeta di cose inutili e recuperare il valore di ogni gesto. Creativo e non

Giulio Iacchetti Credits photo: Barbara Bonomelli

Giulio Iacchetti, classe 1966, si occupa di industrial design dal 1992. All’attività di progettista alterna l’insegnamento presso numerose università e scuole di design, in Italia e all’estero, nonchè la direzione artistica per importanti marchi come iB rubinetterie, ceramica Globo e il Coccio design edition. Caratteri distintivi della sua attività sono la ricerca e la definizione di nuove tipologie di oggetti come il Moscardino, posata multiuso biodegradabile per cui, nel 2001, si aggiudica, con Matteo Ragni, il Compasso d’Oro ed entrata a far parte della collezione permanente del design al MoMA di New York. Con l’ideazione e il coordinamento del progetto collettivo Eureka Coop, realizzato per Coop Italia, ha vinto nel 2009 il Premio dei Premi per l’innovazione. Sempre lo scorso anno, a febbraio, è arrivato in libreria il suo testo “Italianità” (Corraini Edizioni) marche e oggetti “memorabili” della recente storia italiana che hanno contribuito a formare la “coscienza visiva” del nostro Paese.  A maggio la sua personale intitolata “Giulio Iacchetti. Oggetti disobbedienti” è stata ospitata alla Triennale di Milano.

 

Lei è stato tra i primi a credere nel valore della condivisione anche a livello professionale. Ci racconta la sua esperienza di rete?

Ho creduto nella condivisione perché da sempre ritengo importante cogliere il valore delle esperienze altrui per combinare storie non solo di lavoro ma anche di vita. Mi è parso importante per la nostra nuova generazione di designer milanesi, e non solo, incidere sulla realtà attraverso un gesto evidente e d’effetto. Per dimostrare la nostra esistenza ho ritenuto che questo gesto non poteva essere condotto da un singolo. Il gruppo ha la capacità di spingere avanti un’idea con una forza maggiore, che si moltiplica in base alle persone coinvolte. Ne è un buon esempio il progetto collettivo Eureka Coop, realizzato per la grande distribuzione, che coinvolto un nucleo di circa 20 designer italiani, tutti coordinati da me.

L’altruismo può essere una soluzione produttiva nel mondo del lavoro?

L’altruismo è una parola che può essere inquietante perché comunica l’idea di un gesto di generosità estrema, quasi di carattere evangelico. Ma non è questo che mi interessa: io credo in un altruismo “interessato” dove ciascuno possa contribuire e trarre vantaggio dal fatto che si partecipa agli interessi e all’utile in modo proporzionale alla propria attività. Una generosità libera, invece, non è il mio tema.

DROP, Soffione per doccia in silicone morbido, di iBrubinetterie 2008

 
C’è un modello da prendere come esempio positivo?

Il mondo della produzione deve a mio avviso aggiornarsi alla contemporaneità. È chiaro che siamo immersi in un’iperproduzione, in una sovrapposizione di merci che restano invendute, nell’esigenza addirittura di nobilitare un gesto come la rottamazione. Credo che la parola rottamazione sia una delle più terribili che la nostra società possa esprimere e addirittura premiare. La rottamazione è l’arte di elimibare cose ancora utili e di valore che decidiamo di buttare nella spazzatura solo per rinnovare il nostro repertorio di oggetti. E tutto questo in nome del sostegno all’economia. C’è qualcosa di terribilmente sbagliato in questo. Credo invece in una produzione commisurata alle vere esigenze della gente. Se ritorniamo in questa direzione, forse le cose si possono raddrizzare e potremo vivere in un mondo migliore.

Come vede il cambiamento dei consumi e l’evoluzione del mercato dal punto di vista sia dei consumatori sia dei creativi?

È chiaro che le cose stanno cambiando e i creativi, ma io preferisco definirli progettisti, sono tra i primi a comprendere i cambiamenti dei tempi. Ormai il progettista puro non esiste più e forse non è mai esistito. Esiste il progettista che crea, per esempio, piccole collezioni,  mette in rete il proprio lavoro e ha rapporti diretto con i clienti. Credo molto in questa nuova intenzione dei designer di progettare cose che servano e rispondano ai bisogni delle persone. Anzi, vengano prodotte solo in base ai bisogni, su ordinazione. Una nuova filosofia che penso possa ispirare gli scenari futuri della produzione delle merci

Tropico, lampade,  Foscarini, 2008 Credit photo Massimo Gardone

Ci racconta un suo progetto per il futuro?

Le aziende sono ancora dominate dall’idea dell’iperproduzione, con l’obbiettivo di cancellare altri prodotti per imporre i propri. Per me il futuro del disegno, del progetto, quindi della produzione marcerà in altre direzioni. D’altra parte anche le aziende, a ben pensarci, fanno già ora un lavoro quasi sartoriale: i magazzini quasi non esistono più e producono solo in base a richieste precise. Mi piacerebbe sempre più progettare pensando al consumatore finale ma anche a non invadere il pianeta con cose inutili. Non ho un progetto specifico ma tanti progetti che si muovono in questa direzione.

Quali sono per lei i valori fondamentali in un oggetto di design?

Le rispondo pensando alla Mostra di Alessandro Mendini ospitata al Museo del Design della Triennale di Milano (Quali cose siamo fino al 27 febbraio del 2011, ndr). Questa esposizione ci insegna e ci comunica che tutti gli oggetti esprimono dignità. Un’idea dominante nel pensiero dell’architetto-designer Andrea Branzi che ritiene l’oggetto come una sorta di medium tra noi e l’assoluto, tra noi e l’imponderabile. Un po’ è così: se pensiamo a certi oggetti della nostra vita, li consideriamo importanti e significativi perché ci sono stati vicini in momenti fondamentali. Un certo oggetto ha un valore di per sé e non perché esprima bene una funzione o perché esteticamente sia ben riuscito. Il prodotto, l’oggetto, ha un suo valore assoluto. Per me è questa la nuova riflessione. Non è più interessante, già da tempo, la questione forma-funzione. Sì certo: un cavatappi deve funzionare. Ma quanto influisce questo nella mia memoria, nel mio vissuto, nell’evocare momenti della mia vita? Prendiamo la mostra di Mendini: è piena di oggetti per lo più insignificanti, ma chi li osserva bene capisce che hanno avuto un valore nella vita di altre persone come noi. Mi interessa questo aspetto impalpabile dell’oggetto, questo suo contenuto poetico, spirituale, immateriale, quasi magico, che noi disegnatori di nuovi prodotti dobbiamo sempre tenere presente.

Quali sono le sue strategie per migliorare la qualità della sua vita, a livello personale e professionale?

Sono una persona fortunata perché faccio quello che mi piace e sono quasi sempre a contatto con persone estremamente motivate. Non so dire dove si nasconda la qualità. Ho cercato di togliere dal mio lessico certe parole tipo ” non ho tempo”, “sono pieno di impegni”, mi sembra che la vita a volte rischi di passare tra negarsi agli altri e l’essere troppo impegnati per avere tempo da dedicare a se stessi. Ho letto da qualche parte che ci sono due giorni  che non esistono in assoluto: ieri e domani. Sono d’accordo. Anch’io sono innamorato dell’oggi.

Un valore che dovremmo recuperare per vivere meglio?

 La consapevolezza di ciò che si sta facendo, lavarsi i denti, parlare con qualcuno o ascoltare la radio. Essere immersi nella realtà e cogliere la magia di ogni momento, credo sia un obiettivo che tutti noi dobbiamo porci. Di certo non l’ho raggiunto, però mi sembra che questa sia una questione fondamentale: ci fa capire quanto sia speciale la nostra vita in ogni momento.

Bek, sedia pieghevole, Casamania, 2008

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