Ha vinto negli anni svariate medaglie ed è fra le atlete più attese alle Paralimpiadi. La sua una storia di forza e resilienza, raccontata nel libro "Sono sempre io"...
Un sorriso, una consapevolezza, una determinazione che non lasciano indifferenti. Giulia Ghiretti, atleta plurimedagliata tra Mondiali, Europei e Paralimpiadi (Parigi è la sua terza Olimpiade), è un esempio di forza e resilienza.
Quello di una ragazza che a soli 16 anni, a causa di un grave incidente, passa dal preparare i Mondiali di trampolino elastico a un reparto di neurochirurgia e deve pertanto cambiare completamente la prospettiva sulla sua vita, consapevole di aver perso l’uso delle gambe a causa di una frattura alla colonna vertebrale. Senza lasciarsi sopraffare o cedere allo sconforto, ma rendendo questo profondo cambiamento, non voluto e non cercato, un’occasione per crescere più velocemente dei suoi coetanei e diventare più forte che mai, trovando proprio nello sport la spinta per andare avanti e spiccare il volo, nonostante la carrozzina, trasformandosi a promessa della ginnastica quale era prima dell’incidente a campionessa di nuoto paralimpico.
Un percorso che Giulia ha voluto condividere col mondo cosiddetto “normale” con i suoi record in vasca e con il libro edito da Piemme Sono sempre io. L’incidente, il nuoto, la mia rivincita., che è un monito anche per le nuove generazioni a non arrendersi e a non perdere, nonostante tutto, mai il sorriso e la voglia di vivere.
Sono sempre io: spiegaci questo titolo e cosa vuole comunicare…
È un titolo che all’inizio non mi convinceva, perché mi sembrava autoreferenziale: io chi sono per dire che sono sempre io? Cosa interessa alla gente? Invece, dopo aver concluso il libro, l’ho rispolverato e mi sono detta che era un ottimo titolo: l’infortunio, l’intervento, l’essere su una sedia non mi aveva cambiata! O meglio: fisicamente mi ha cambiata parecchio, ma come persona no. A dirmelo sono stati gli altri: “Giulia, sei sempre tu”. Quindi eccomi: sono sempre io! Spero che la mia storia possa aiutare qualcuno a superare qualche difficoltà.
Come ti ha cambiata questa esperienza e cosa ti ha insegnato?
Non mi ha cambiata, ma mi ha migliorata. Mi ha insegnato che si può continuare a impegnarsi per raggiungere i propri obiettivi: magari la strada è più lunga, un po’ più tortuosa e con qualche curva e salita in più, ma si può fare. Anzi, si deve fare! L’importante è circondarsi di persone positive e saper chiedere aiuto nel momento opportuno.
Hai mai provato rabbia, delusione, hai mai pensato “Perché proprio a me?”
Sorprendentemente non mi è mai capitato. Penso che il merito sia di mia madre che, a poche ore dall’intervento chirurgico per la stabilizzazione della frattura alla colonna vertebrale, è stata spietata.
Le avevo chiesto: “Riuscirò a terminare l’anno a scuola (ero in seconda superiore)? Riuscirò a tornare a saltare sul trampolino?”.
Mi rispose: “Se studierai, finirai l’anno a scuola. Invece no, non tornerai a saltare e nemmeno a camminare”.
La ringrazio ancora oggi per averlo fatto. Non mi diede il tempo per rimuginare, di arrabbiarmi col destino o di rassegnarmi. Mi diede solo la forza per ripartire al più presto.
Qual è il tuo messaggio per le persone che passano per un’esperienza come la tua?
Di non arrendersi. Di ricercare la felicità, perché significa porsela come obiettivo, quindi avere più chances di raggiungerla. Certo, ci vuole coraggio, un po’ di fortuna, e un contesto umano favorevole: gli amici, la famiglia. Le belle persone, insomma. Chi ti fa vedere la vita a colori e non in bianco e nero.
Pensi che nei confronti della disabilità ci siano ancora molti stereotipi?
Sì. Perché ciò che non si conosce fa paura e ciò che fa paura è meglio ridurlo ai minimi termini, stereotipando. È un processo mentale, per semplificare letture e approcci. Ma fa danni, perché riduce tutto alla superficialità, quindi agli stereotipi. E laddove c’è superficialità, non possono esserci cose positive. La disabilità è quantomai varia: non è solo una carrozzina. E una persona non è una carrozzina, una persona non è la sua disabilità, che rimane soltanto una delle caratteristiche di un essere umano.
Cosa ti infastidisce di più nel modo in cui le persone si relazionano a una persona con disabilità?
Il pietismo, la commiserazione. Le carezze come si danno ai cani o ai bambini, il tono della voce che cambia e diventa infantile. E, in generale, l’approccio di chi pensa che tu valga meno, che tu non sia in grado, in fondo, di pensare e fare come tutti gli altri. Mi dà fastidio chi guarda alla carrozzina e non alla persona. Poi ci sono quelli che pretendono di sapere tutto di te e quindi non chiedono nulla, per esempio sulle mie esigenze.
Cosa vorresti che queste persone sapessero, perché proprio non lo immaginano?
La mia giornata tipo, i mille impegni che ho, le corse che faccio per far stare dentro tutto in una giornata. Le passioni, gli amori, i sentimenti, gli obiettivi e i risultati. Con un fardello che altri non hanno. Vorrei che sapessero che se io salgo in macchina e ho dimenticato la borsa in casa, ci metto parecchio tempo per recuperarla. Vorrei che sapessero che esiste una dilatazione del tempo incredibile. O i piccoli disagi quotidiani: vestirsi, muoversi in ambienti non accessibili, andare in bagno e tutto il resto. Vorrei che sapessero che spesso ci si lamenta per il nulla cosmico.
Non di rado le persone disabili e le loro famiglie faticano a mostrarsi per come sono e a parlare della loro disabilità…
Lo so. Non mi appartiene quel mondo, ma credo sia dovuto al fatto che ho avuto la fortuna di una famiglia che non ha mai preso in considerazione l’ipotesi di vergognarsi per la mia condizione o di chiudersi in casa per questo. La vita va affrontata a viso aperto. Ripeto: io non sono la mia carrozzina. Invito le famiglie ad avere coraggio e di mostrarsi per quello che sono. Apritevi, uscite, relazionatevi, abbiate fiducia in voi stessi, fate sport, mettetevi in mostra.
Spesso le nuove generazioni, i tuoi coetanei, non riescono a capire cosa vogliono e a trovare un senso nella loro vita. A loro cosa ti senti di dire o consigliare?
Vorrei dire loro di non farsi schiacciare dal peso delle aspettative di una società che ci vuole velocissimi, bravissimi, efficientissimi. Li invito a guardarsi dentro, a cercare di capire cosa vogliono veramente, quali sono i propri sogni e non quelli degli altri su di loro. Che sia fare il pane di notte, l’ingegnere aerospaziale, l’agricoltore, l’operaio, il medico o l’avvocato. Sogna, ragazzo, sogna: come direbbe Vecchioni.
Lo sport può insegnare molto, non solo ai giovani, ma a tutti. A te personalmente cosa ha insegnato?
Lo sport mi ha insegnato che senza fatica non si arriva da nessuna parte, o comunque si rimane nella mediocrità. Ma per dirne una, perché gli insegnamenti dello sport sono infiniti. Provo a dirne altri: inseguire gli obiettivi, rispettare le regole e l’avversario, organizzare il proprio tempo. Ma davvero ce ne sarebbero mille di buoni motivi per fare sport.
Come coltivi la tua serenità interiore?
Facendo quello che mi piace fare, che oggi è nuotare, stare in famiglia e stare con gli amici. Senza dimenticare di costruirmi un futuro, per esempio studiando. Coltivo la mia serenità coltivando le persone a cui voglio bene.
Tuoi prossimi obiettivi e progetti?
Fatico in questo momento a ragionare nel lungo termine, perché la laurea specialistica in Ingegneria Biomedica (mi manca pochissimo alla laurea!) e le Paralimpiadi occupano tutta la mia mente. Dopo, chissà. So che ci sono mille porte aperte, tante idee, innumerevoli strade da poter seguire. Questo da una parte è bello, dall’altra mi mette in difficoltà. Ci penserò dopo Parigi!
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Vincenzo Petraglia